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I DOLORI DEL CONTADINO GOBALE

Carlo Petrini intervista l'economista americano Stiglitz: "La nostra politica dei sussidi favorisce solo i grandi agricoltori e l'omologazione produttiva"
I partecipanti a «Terra Madre - Incontro mondiale tra le comunità del cibo», contadini, pescatori, trasformatori, semplici nomadi, sono le persone su cui si ripercuotono gli effetti (troppo spesso negativi) delle grandi decisioni prese in sede internazionale dal Wto, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Queste persone si trovano troppo lontane dalla realtà dei burocrati della globalizzazione perché siano comprese le loro ragioni, i loro problemi quotidiani, e sono egualmente troppo poco forti per incidere da sole sulle loro possibilità di sviluppo. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia nel 2001, con grande esperienza accademica e «sul campo» all'interno della Banca Mondiale, ha scritto nel suo libro La globalizzzione e i suoi oppositori: «La guerra moderna, fortemente tecnologica, mira a eliminare il contatto umano: sganciare bombe da un'altezza di 15.000 metri permette di non sentire quello che si fa. La gestione economica moderna è simile: dalla lussuosa suite di un albergo si possono imporre con assoluta imperturbabilità politiche che distruggeranno la vita di molte persone, ma la cosa lascia tutti piuttosto indifferenti, perché nessuno le conosce». Proviamo a parlare con lui dei problemi delle comunità di Terra Madre da un punto di vista macroeconomico, in virtù dalla sua esperienza in seno ai maggiori organismi decisionali del mondo. Sono passati 5 anni da Seattle e 3 dalle Torri Gemelle, eventi che come lei sostiene ci hanno fatto capire in maniera repentina che viviamo tutti sul medesimo pianeta. Lei è convinto che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale possano ancora trasformare il loro modo di agire in seguito a questa globale presa di coscienza: che possano iniziare a comportarsi secondo regole eque e giuste, andando incontro ai desideri e alle esigenze di tutti i fragili soggetti coinvolti dalle loro politiche. «Sì, ne sono ancora convinto, ma penso pure che sarà un processo molto lento e difficile. Quello che è successo nell'ambito del commercio globale fino ad ora palesa difficoltà enormi per riportare il tutto sui giusti binari. Dopo Seattle la comunità mondiale ha compreso finalmente che questo sistema non è giusto ed equilibrato. Perfino chi prende le decisioni ha dovuto fare i conti con una tale evidenza e infatti a Doha c'è stato un accordo per un round di sviluppo. Purtroppo però, almeno fino a fine luglio scorso (quando il Wto ha deciso di eliminare quasi del tutto i sussidi alle esportazioni nei paesi poveri e i dazi doganali più iniqui nei loro confronti, ndr), non c'è stato nessuno negli Usa o nel mondo che abbia preso concretamente l'iniziativa, gli Usa e l'Europa hanno continuato a rinnegare le promesse che hanno fatto a Doha. Diciamo che c'è stato un progresso nel riconoscere il problema, ma non si è ancora fatto molto lavoro verso una soluzione reale». Lei pensa che l'elemento guerra sia stato particolarmente influente per frenare il lavoro verso reali opportunità di sviluppo per tutti? I conflitti in Afghanistan e in Iraq quanto hanno distolto l'attenzione da questi problemi? «Penso non molto, ma mi lasci rispondere in un'altra maniera. Il modo in cui gli Usa sono andati alla guerra dimostra soprattutto i pericoli di un approccio unilaterale. Allo stesso tempo dimostra l'importanza della democrazia: quando hai solo una persona che decide esiste la possibilità molto grande che questa persona non abbia ragione. Bush ha sbagliato sotto molti punti di vista, dall'inesistenza delle armi di distruzione di massa alle connessioni con Al Quaeda. Se la democrazia fosse stata reale e funzionante non si sarebbe mai arrivati a questo punto. Allo stesso modo, i problemi dell'unilateralismo economico, spesso chiamati in causa quando si parla di globalizzazione, pongono questioni inerenti un principio democratico che non viene applicato. La gente comincia a capire che non si tratta soltanto di mera economia, ma di problemi che coinvolgono tutti gli aspetti della società globale». Uno dei motivi utilizzati per giustificare la guerra è stato proprio una presunta volontà di portare la democrazia in quei territori. Le ho fatto la precedente domanda perché in Europa questa motivazione è stata criticata anche dalle Chiese, che sono quelle che con il movimento Giubileo 2000 hanno chiesto al Fondo Monetario Internazionale - e in parte ottenuto - di annullare il debito dei paesi poveri. Mi piacerebbe capire meglio come l'azione unilaterale e poco democratica del Fmi riesce a distruggere le buone intenzioni di chi cerca di cambiare il mondo economico a livello planetario. Soprattutto considerando il ruolo predominante che al suo interno rivestono gli Stati Uniti. «Infatti uno dei problemi più grandi di un organismo come l'Fmi è che gli Stati Uniti sono l'unico paese con il potere di veto, e questo è palesemente un potere eccessivo. Purtroppo l'Fmi è stato creato alla fine della seconda guerra mondiale e riflette ancora la situazione politica di allora, con una netta predominanza degli Stati Uniti su una fragile scena mondiale. Ma da allora le cose nel mondo economico sono molto cambiate e per di più gli originali intendimenti con cui si creò l'Fmi sono stati completamente disattesi. Se gli Usa avessero avuto voglia di lavorare in modo multilaterale e cooperativo, sono sicuro che non ci sarebbero stati problemi e sbagli. Invece, con la scusa di un aiuto economico, si riesce a imporre dall'alto decisioni politiche a paesi che in molti casi stanno cercando, con i loro tempi e secondo le loro potenzialità, la loro originale via di sviluppo. Li si obbliga ad allinearsi a una visione economica liberista e molto obsoleta, tipica di chi decide all'interno dell'Fmi (quello che Stiglitz chiama "fondamentalismo del mercato", ndr): una visione che non li aiuta e che per di più li soggioga, finendo con l'essere in pratica una nuova forma di colonialismo». Nei suoi scritti l'auspicio di una maggiore democrazia è anche rivolto ai paesi in via di sviluppo e lei sottolinea le colpe proprio degli Stati Uniti, che in realtà con i loro interventi economici sembrano fare di tutto perché queste nazioni non riescano ad assumersi in prima persona la responsabilità del loro benessere. Trovo molto interessante che un americano scriva queste cose, perché quando sosteniamo queste tesi in Italia ci tacciano di essere antiamericani. Io non penso si tratti di antiamericanismo, in realtà si esprimono dei legittimi dubbi sul governo americano in carica. «Il vero antiamericano è George W. Bush, che non dà informazioni su cosa sta facendo il suo governo e non fa nemmeno i nomi di chi ci lavora. È fortemente antipopolare e disattende i principi costituzionali democratici, nonché quelli in favore dei diritti umani. I prigionieri di Guantanamo sono un esempio lapalissiano, per non parlare dei trattamenti ai prigionieri in Iraq, che tutti tristemente conosciamo». Il vero potere dunque sta nell'informazione. «Sì, e loro credono nei segreti. La segretezza dà loro una discrezionalità decisionale che essi ritengono fondamentale ma che non è per nulla giustificata all'interno di organismi pubblici e di pubblica utilità». Vorrei la sua impressione sul mondo agricolo degli Stati Uniti. Slow Food, lavorando con i contadini di tutto il mondo, ha la sensazione che si viva una grande situazione contraddittoria, tra agroindustria massiva e sovvenzionata, intere comunità che non reggerebbero la concorrenza con i paesi in via di sviluppo per via dei prezzi, la forte influenza delle multinazionali, il movimento del biologico in forte ascesa... «Penso soprattutto che la nostra politica dei sussidi in agricoltura sia stata fraintesa dai suoi stessi fautori. In alcuni comparti produttivi è indispensabile per mantenere in vita intere comunità rurali per via della loro forte specializzazione produttiva e della loro difficoltà a riconvertirsi. Alcune di queste comunità sono così estese da essere grandi come un intero Stato. In realtà però la politica dei sussidi è risultata come uno spreco di risorse, un grande budget caratterizzato da una forte inefficienza economica. Basti dire che più di tutti coinvolge i pochi grandi contadini e tralascia gli interessi dei piccoli, favorendo la concentrazione, l'omologazione produttiva e i sistemi di sfruttamento intensivo». Esattamente come in Europa, inefficiente e sprecona. «Sì, con la conseguenza che ha due effetti importanti: primo, fa salire il prezzo della terra a livelli esorbitanti, cosicché i piccoli contadini, che non hanno sufficiente capitale, non possono comprarla e hanno difficoltà nel continuare a lavorare. Secondo, per aumentare la produttività al massimo e anche di più, gli alti sussidi incoraggiano un uso di fertilizzanti e prodotti chimici così grande da mettere seriamente in pericolo l'ambiente». Incoraggiano anche l'introduzione degli Ogm, un prodotto in linea teorica perfetto per le finalità di quest'agricoltura intensiva e opportunista. «Questo è un problema molto più complicato. Da economista, posso dire che le forze economiche spingono sempre per maggiore produttività, quindi gli Ogm sarebbero un vantaggio del punto di vista del produttore». Ma dal punto di vista ambientale questo crea enormi problemi. «Se parlo da ambientalista non posso che essere d'accordo, particolarmente nei casi in cui sono disegnati per agire insieme a erbicidi e altri prodotti chimici». La terra sta diventando ovunque più costosa e inaccessibile a tutti: cosa pensa di questo fatto, visto che è la risorsa primaria dei contadini? «In parte è il riflesso dell'incremento di popolazione e quindi della matematica mancanza della terra, inoltre è molto aumentata la produttività e quindi la terra diventa più preziosa. Ma io mi riferivo soprattutto a un aumento artificiale dei prezzi, dovuto ai sussidi. Il valore di questi aiuti economici, conferiti per estensione degli appezzamenti, è capitalizzato e aggiunto al prezzo della terra. Si può dunque dire che i reali beneficiari dei sussidi sono i proprietari terrieri e non i contadini». Parlando di gravi squilibri generati dalle negoziazioni globali, un problema emerso con veemenza è quello della cosiddetta biopirateria. «È un esempio delle distorsioni che si generano nelle discussioni sbilanciate durante i meeting del Wto. Sono contro questa gestione delle proprietà intellettuali, infatti quand'ero consigliere di Clinton ci siamo opposti agli accordi Clips, sia perché sono negativi per la scienza e la ricerca sia perché sono gravemente penalizzanti nei confronti delle nazioni in via di sviluppo. Purtroppo le industrie americane hanno esercitato forte pressione e l'hanno spuntata. È ancora difficile che avvengano ruberie clamorose, in un caso una compagnia del Texas ha cercato di brevettare il riso Basmati, ma il governo indiano ha con successo bloccato il brevetto. La situazione è però molto più preoccupante se succede con le piccole nazioni che non hanno le forze per opporsi. Sono questi Stati che subiscono le più gravi angherie in virtù della globalizzazione, dobbiamo intervenire perché siano in grado di camminare con le loro gambe e non dipendere dai paesi ricchi. Per far questo è necessario cambiare il modo in cui sono governate le istituzioni internazionali, rendere i loro processi decisionali più democratici: non rifiutare la globalizzazione, poiché è ineluttabile, ma lavorare per un globalizzazione "dal volto umano"». (tratto da "La Stampa")


giovedì 2 settembre 2004


News

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