La Fao: crescono gli affamati del mondo, e la denutrizione uccide 5 milioni di bambini.
Correva l’anno 1996, terrorismo e teoria della «guerra preventiva» erano in
gestazione, ma non erano ancora diventati una realtà di tutti i giorni.
Decine di capi di stato e di governo, animati da un ingiustificato
ottimismo, lanciarono un obiettivo che oggi appare un clamoroso fiasco:
dimezzare gli affamati del pianeta entro il 2015. Oggi, otto anni dopo,
undici anni prima del presunto traguardo, si viene a sapere che la folla di
coloro che rischiano la morte per fame si è ingrossata.
Solo negli ultimi
anni, tra il 2000 ed il 2002, altri 18 milioni di abitanti del pianeta sono
stati esclusi e relegati tra gli affamati. Milioni di bambini muoiono di
fame, uno ogni cinque secondi, 5 milioni in un solo anno, 20 milioni di
neonati nascono sottopeso. Presentando ieri a Roma il rapporto 2004 sulla
situazione mondiale dell’insicurezza alimentare, i dirigenti della Fao,
hanno dovuto allargare le braccia quando alcuni cronisti presenti hanno
chiesto perché, ancora una volta, quando si tocca il tasto della fame e
dello sviluppo, non c’è da essere ottimisti. «La colpa non è tutta della
Fao - ha ribattuto Hartwig de Haen, vice-direttore generale del dipartimento
economico dell’agenzia dell’Onu - noi non siamo un governo mondiale, né un
ministero, offriamo consulenze».
Ma, tra le righe del rapporto, si può leggere un dato che fotografa la
situazione mondiale ed è la riprova del fatto che solo paesi che hanno
saputo o stanno tentando di risolvere crisi o conflitti riescono ad
invertire la marcia, mentre altri, travolti dalla guerra, stanno
sprofondando. Il dato complessivo è altamente negativo: dall’inizio degli
anni novanta vi è stato un modesto calo degli affamati (9 milioni in meno
nei primi anni) ma la tendenza si è successivamente invertita e dall’inizio
dei nuovo millennio ed oggi 852 milioni di persone soffrono la fame.
Non vi è stato dunque alcun progresso significativo né alcun passo in avanti
in direzione dell’obiettivo fissato nel summit romano del 1996 e le
strategie di lotta alla fame si trovano oggi di fronte ad un drammatico
fallimento. In questo quadro sconfortante occorre tuttavia individuare all’
interno dei continenti meno coinvolti dalla globalizzazione, le aree dove la
sofferenza è maggiore ed altre nelle quali lo sviluppo ha mosso
significativi passi, al prezzo tuttavia di migliaia di morti sul lavoro e di
gravi limitazioni nei diritti individuali. In Africa vanno in
controtendenza, hanno cioè ridotto del 25% gli affamati nel corso degli anni
'90, questi paesi: Angola, Benin, Ciad, Repubblica del Congo, Ghana e
Guinea, Lesotho, Malawi, Mauritania, Mozambico, Namibia. Alcuni, come il
Mozambico e l’Angola, sono ex colonie portoghesi uscite da decennali
conflitti tra opposte fazioni, altri, come il Congo, sono ancora sospesi sul
baratro della guerra, ma dispongono di immense risorse naturali e riescono a
produrre ricchezza.
In Asia, tra i paesi che la Fao include nella lista dei 30 che si avviano a
superare la fame, vi sono Cina, Indonesia, Myanmar, Thailandia e Vietnam,
affiancati da alcuni paesi arabi (Siria ed Emirati) che registrano progressi
in campo sociale. Nell’America centrale e meridionale la Fao indica Cile,
Ecuador, Guyana, Uruguay e Haiti tra i paesi che hanno ridotto il numero
delle persona affamate.
Nel complesso tuttavia la tendenza è negativa, ampie regioni dell’Africa,
una parte dell’Asia e dell’America del sud sono escluse dallo sviluppo. La
Fao mette anche l’accento sul fatto che la lotta alla fame, assorbendo
consistenti risorse, riduce i budget a disposizione dei soggetti che si
battono contro le altre emergenze del pianeta, come ad esempio la lotta alla
diffusione dell’Aids, della tubercolosi e della malaria. L’agenzia dell’Onu
calcola in 30 milioni di dollari i «costi diretti» della lotta contro la
fame, molto di più (cinque volte) di quanto si spenda per combattere gravi
emergenze sanitarie. Nel mondo dunque si spende poco e male per ridurre il
numero degli affamati, la Fao ricorda infatti che ogni dollaro investito
dovrebbe produrre 5-20 volte tanto in termini di utili, ma ciò non accade.
Le cause sono certo molto complesse; leggendo il rapporto dell’agenzia dell’
Onu per il cibo e l’agricoltura, si coglie un filo che lega le diverse
valutazioni: sono stati premiati e aiutati maggiormente quei paesi dell’
emisfero sud che, pur tra crisi e difficoltà, hanno raggiunto un certo
livello di stabilità, mentre vengono condannati all’emarginazione quelle
realtà che non riescono ad emanciparsi dalla guerra. La genericità e la
vaghezza di alcune formule contenute nella relazione ed esposte ieri a Roma
(«dare priorità ad azioni che abbiano un impatto immediato») rivelano che
certi obiettivi irrealistici, come quelli del summit del 1996, finiscono per
produrre solo illusioni che suonano come una tragica beffa di fronte ai
problemi del pianeta. (Toni Fontana)
Tratto da "L'Unità"
giovedì 9 dicembre 2004
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