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"PRODOTTI TIPICI? LA GDO VUOLE SOLO FOLKLORE"

Difficile rapporto con la grande distribuzione. «Negli scaffali merce da Spagna, Grecia, Marocco, Egitto e Turchia. I nostri prodotti relegati nell'angolo». Bronte. Un giro più o meno veloce tra pianura e montagna, tra Piana e Etna. Un giro che basta a farsi più che un'idea del perché puoi produrre tutto il buono del mondo e non lo troverai che raramente sui banconi dei supermercati.
Qui come a Treviso, a Catania come a Torino. Perché son cose troppo buone, verrebbe voglia di dire senza esagerare, e produrle costa. Per finire su quei benedetti banconi, che rappresentano il finale della filiera commerciale «dal produttore al consumatore», tante cose dovrebbero accadere, alcuni miracoli, il trionfo del gusto, di una nuova economia in cui i costi non penalizzino la qualità. Perché se va avanti così si rischia di diventar matti come questo saggio e simpatico signore di Bronte, Giuseppe Anastasi, che dal '72 ha messo in piedi un'azienda che produce un pistacchio straordinario. Dietro a cui, appunto, si diventa matti. «Perché continuo a battermi per commercializzarlo e venderlo - attacca diretto Anastasi - ma è sempre più difficile. E' vero, non si trova nei supermercati, perchè i grandi distributori lo cercano solo per le occasioni folkloristiche. Il mese del prodotto siciliano: ed ecco che spunta il pistacchio. Poi più nulla». Si dispera Anastasi, perché per tutto il resto dell'anno il pistacchio che troviamo sui banconi viene dal lontano Iran. Dalla Turchia. Perché? «Perché il nostro, alla fine, costa al chilo 12.50 euro, cui bisogna aggiungere i costi di confezionamento, mentre quello iraniano sgusciato si ferma a 7.50 euro, quello turco al massimo arriva a 10». Così il pistacchio è in crisi. Perché non finisce nelle mani del piccolo consumatore, ma nemmeno lo cercano più i produttori di affettati. Nella mortadella c'è pistacchio iraniano. E nei gelati? La stessa cosa. Forse meno buono, sicuramente più economico. Del resto una giornata di lavoro di un operaio del pistacchio da noi costa una quarantina di euro. In Turchia non arriva a 5. Ma c'è qualcosa di più curioso. «Sono venuti da me alcuni produttori iraniani - racconta Anastasi - e mi hanno detto che con un milione riescono a pagare un'intera famiglia che lavora per loro. Un milione l'anno». Da piangere. Così Anastasi si consola rileggendo l'e-mail della signora di Genova che chiede d'aver inviati 200 grammi di pistacchio, «se è davvero un afrodisiaco». O quella di una principessa di Capri, che ne ha bisogno «per preparare dolci speciali per un party». E se il pistacchio va male, il Pecorino "pipato" non sta meglio. Pur essendo altrettanto originale e unico, buono e irripetibile. Giuseppe Arcidiacono, produttore di Mascali con la sua famiglia, spiega a malincuore. «Il nostro pecorino è troppo prodotto di nicchia per finire sui banconi dei supermercati. In un anno ne produciamo 10 mila chili, ma il problema non è la quantità. Noi lo vendiamo a 7.70 euro al chilo, dopo averlo comprato dal produttore a 4,00/4,50. Nel frattempo paghiamo il costo di 8 mesi di stagionatura, un calo-peso del 20%. Così diventa antieconomico cercare di entrare nella grande distribuzione, ai prezzi che vorrebbero queste catene. Ci appoggiamo alla piccola distribuzione, salumerie che cercano anche la qualità». Qualità, qualità. Della frutta. Ti sposti di pochi chilometri in linea d'aria, e trovi a Zafferana l'azienda di Santo Coco che produce Mele Cola e Gelato Cola in contrada Cassone. Tutta roba genuina, per di più biologica. «Non è una produzione elevata - si rammarica Coco - anche perché ormai operiamo su modesti appezzamenti che non danno molto reddito. Ed è pure difficile trovare manodopera da queste parti. La concorrenza maggiore ce la fa il Trentino, ovviamente, ma è roba diversa, trattata e irrigata in modo differente. Solo che loro stanno nei circuiti grandi di vendita, noi non ci possiamo arrivare». Non ci arriva il pistacchio. Non ci arriva il pecorino. E nemmeno i «puma» dell'Etna. E va bene, diciamo. Ma gli agrumi? Niente. E perché? Da quattro anni stanno cercando di dare una risposta a questo interrogativo dal Consorzio Euroagrumi di Biancavilla. «Siamo attaccati - spiega Salvatore Rapisarda, presidente del Consorzio - dalle produzioni di Spagna, Grecia, Marocco, Egitto. E dai cinesi, che sono diventati i secondi produttori mondiali, superati gli Usa e vicini ai brasiliani. Vanno tutti meglio di noi, ormai. L'Ue controlla poco la provenienza di certe arance spagnole (i siciliani dicono che «troppe che hablano espanol» verrebbero da Uruguay, Argentina e Algeria), ma stiamo indietro anche ai prodotti spagnoli ufficiali, perché lì si versa il 50% in meno di tasse rispetto all'Italia». Così Euroagrumi ha creato un suo piccolo canale distributivo. «Si tratta di piccolissimi punti vendita localizzati nel nord-est, tra Emilia, Veneto e Trentino. Lì esiste il rapporto diretto produttore-consumatore. E i prezzi sono quelli giusti. Ma è un'iniziativa che non può da sola risolvere nemmeno una piccola parte del problema. Dobbiamo batterci ed imporre questa linea. Trasparenza nei prezzi e basta super provvigioni ai mediatori. Ma c'è un altro problema sempre più grave: se la grande distribuzione, infatti, batterà sempre più, come sta facendo, la pista dell'acquisto all'asta ai prezzi più bassi, allora per noi sarà davvero notte fonda». "La Sicilia" 1 dicembre 2004


giovedì 2 dicembre 2004


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