Stati uniti - Case e fiducia Usa, giornata nera
Crollano i prezzi delle abitazioni e la fiducia dei consumatori. Le Casse di risparmio si buttano sui titoli cartolarizzati, la Fed pompa moneta. E Wall Street licenzia 34 mila persone. La crisi finanziaria negli Usa non accenna a dare segni di miglioramento: crollano i prezzi delle case e con loro la fiducia dei consumatori. Intanto, mentre a Wall Street non si confida nel ritorno del toro, la trama si infittisce grazie al governo, che individua nel sistema delle Casse di risparmio il nuovo salvagente della finanza cartolarizzata.
L'euforia dei mercati, rivitalizzata lunedì dalla notizia dell'aumento inaspettato delle vendite immobiliari, ha subito ieri un nuovo stop. Si vendono infatti più case, ma a un prezzo decisamente basso, almeno secondo quanto stimato dall'indice Case-Shiller diffuso ieri. L'indicatore, che tiene conto dei prezzi immobiliari in venti zone chiave, è sceso del 10,7% in febbraio rispetto all'anno precedente. Il dato è il più basso dal 2000, anno in cui è stato varato l'indice. In alcune città, come Miami e Las Vegas, i prezzi sono calati di quasi il 20% in un anno. L'effetto domino causato dallo scoppio della bolla immobiliare sta coinvolgendo sempre di più l'economia reale, a giudicare dall'ultima osservazione sulla fiducia dei consumatori americani. Secondo l'indice del Conference Board, la fiducia è nuovamente crollata a marzo di oltre dieci punti, a 64,5 dai 76,4 di febbraio. A peggiorare moltissimo, oltre al giudizio sulla situazione presente, sono le aspettative per il futuro, il quale indice è crollato ai minimi dal 1973, anno in cui si verificavano eventi nefasti quali lo scandalo Watergate e la prima crisi petrolifera. In particolare un numero sempre crescente di consumatori intervistati si aspetta un peggioramento delle condizioni nei prossimi sei mesi, soprattutto sul versante della perdita di posti di lavoro.
I mercati azionari non si fanno però deprimere da questi dati tremendi e invece tentennano intorno alla parità del giorno precedente. Ma comunque ieri si è saputo che ben 34 mila persone sono state licenziate negli ultimi 9 mesi nel settore finanziario, quasi quanto i posti di lavoro persi nei primi mesi del crollo della new economy. Ci sarebbe da preoccuparsi anche per l'economia della città di New York: un terzo dei redditi della Grande mela vengono infatti dall'«indotto» di Wall Street. Nel frattempo, tra chi pensa che il peggio della crisi sia già passato e chi invece vaticina la fine dell'era d'oro dell'industria bancaria, la Federal Reserve inietta altri 50 miliardi nel sistema. A giudicare dalle richieste, 38 miliardi in più di quanto assegnato, e dal tasso di interesse del 2.61%, ben più alto del tasso sui Fed funds, le istituzioni finanziarie americane sono ancora assetate di liquidità.
Contemporaneamente spunta una nuova arma - o se si vuole, un nuovo fondo del barile da grattare - per far rinascere il problematico mercato dei titoli da cartolarizzazioni. Il governo degli Stati uniti ha raddoppiato per le Casse di risparmio il limite massimo di titoli ad alto rischio - tra cui i derivati dai mutui - che possono detenere: da tre a sei volte il capitale sociale. Le Casse di risparmio, istituzioni finanziarie in genere piccole, che raccolgono fondi e concedono mutui su base locale, dovrebbero quindi correre in soccorso della grande finanza, comprando tutti gli strumenti finanziari rischiosi che per ora non vuole nessuno. L'ultima volta che queste furono coinvolte in una crisi finanziaria, dopo lo scoppio della bolla immobiliare del 1985, furono salvate dal governo con un esborso di 100 miliardi. Da allora il ruolo di queste istituzioni finanziarie è fortemente ridotto, ma all'epoca, per farle uscire dalla crisi, fu concesso loro proprio di speculare su titoli rischiosi.
(di CARLO LEONE DEL BELLO)
Viaggio a Tent city tra i neo baraccati
Finire in tendopoli Con la crisi dei mutui, negli Stati uniti sempre più persone perdono la casa. Alla periferia di Los Angeles è sorta una tendopoli di nuovi homeless, mentre le agenzie immobiliari si buttano sulle case pignorate.
Sono le undici del mattino in questa tendopoli schiacciata fra i binari della Southern Pacific e la pista dell'aeroporto di Ontario, nell'hinterland di Los Angeles. Il sole è già rovente e le operazioni di sgombero procedono con relativo ordine. Un dozzina di agenti della polizia tiene d'occhio le cinquanta persone che fanno la fila davanti a una tenda marcata «registration». Al banco danno nome, cognome ed estremi anagrafici al funzionario che registra e, in base alle risposte, assegna bracciali di plastica di diversi colori: bianco approvato, rosso respinto, viola ulteriori accertamenti necessari. Il municipio di Ontario ha deciso che solo chi dimostra una «trascorsa residenza» (diabolico requisito per chi è per definizione senza fissa dimora) nella città potrà rimanere nell'accampamento aperto lo scorso autunno per ospitare i senzatetto e la cui popolazione da allora è cresciuta fino a oltre 400 persone che si dividono l'acqua di due pompe da giardino, sei bagni portatili e alcune docce fredde da campo.
La nuova depressione
Lo sgombero, la polvere e la spazzatura sono gli stessi di un qualunque accampamento di marginalità urbana; ma qui riportano alla mente anche quello in cui arriva la famiglia Joad dopo aver attraversato l'America sul proprio camion scassato in Furore, nell'adattamento di John Ford del romanzo in cui John Steinbeck raccontò la grande depressione e i suoi effetti devastatanti sulle famiglie americane. I Joad erano oakies, transfughi della devastazione del dust bowl nel Midwest e quando, come migliaia d'altri, giunsero infine nell'anelata California, si ritrovarono in un campo profughi affollato di famiglie disperate e bambini denutriti a San Bernardino, cioè proprio a un tiro di schioppo da Tent City che, 80 anni dopo, ne reincarna i fantasmi. E ha anche il suo Tom Joad: è Michael, sulla quarantina, alto e magro, faccia abbronzata e barbuta, occhi intensamente verdi che sembrano quelli di Henry Fonda.
«Ma ti pare giusto?» mi dice, «15 anni di esercito, al servizio del mio paese e ora mi mettono un bracciale al polso e mi dicono che devo andarmene» aggiunge mostrando il nastro di plastica rossa che segna il suo destino, «manco fosse la Gestapo». «Stampa italiana, eh?» aggiunge adocchiando il mio tesserino, «mi ricordo la Rai, la guardavo sempre da bambino, quando con mia madre viaggiavamo per l'Europa».
Michael racconta una storia romanzesca, un'infanzia passata con la madre psicologa sempre in viaggio, spesso in barca fra Rodi e Santa Maria di Leuca, una scuola in Svizzera poi a Londra. È difficile capire quanto ci sia di vero, ma intanto passa dall'inglese all'italiano al francese allo spagnolo, perfetto e con inconfondibile cantilena messicana. «Uscito dall'esercito stavo male, non ci stavo con la testa, mi facevo, finché ho deciso di ripulirmi, andare in Messico, ricominciare da zero. Per dieci anni ho abitato in una fattoria; laggiù ho una moglie, campi, capre. Poi un paio di anni fa sono tornato qui nel mio cosiddetto paese. Voglio alzare un po' di soldi, da due anni ogni mese faccio un vaglia di 100 dollari a mia moglie». In altre parole, come milioni di messicani, Michael, veterano, bianco, sussiste nel norte: un'esistenza marginale e invisibile in cui lavorare non vuol dire necessariamente potersi permettere una casa.
Tent City gli offriva una tenda, un posto per dormire e un senso di comunità; ora è tornato senzatetto di categoria «b», dovrà arrotolare la tenda e tornarsene per strada, sotto i cavalcavia, ovunque purché - come ha decretato la giunta di Ontario - sia fuori dal territorio cittadino. «15 anni di esercito», commenta amaro Micahel, «e ora il mio nemico è il mio paese. Ma come si fa a combatterlo?».
Mentre la maggior parte dei suoi residenti sono stati dispersi, Tent City ha acquistato notorietà. I giornali locali hanno seguito la vicenda; sono passate troupes della tv francese e inglese, una foto del campo è apparsa sul New York Times per illustrare un articolo che paragonava l'attuale crisi economica alla grande depressione. Come i campi profughi di Furore, Tent City è diventata il simbolo della crisi - un subprime village per quelli che hanno perso la casa, ipotecata dalle banche dopo che il mutuo capestro si è rivelato troppo caro. La realtà non è esattamente quella dipinta dai media, una manciata di persone che avevano perso la casa da poco c'erano a Ontario, ma la stragrande maggioranza erano homeless «cronici», veterani, tossicodipendenti, psicolabili, gente caduta da un pezzo attraverso i pochi brandelli di sicurezza sociale residui e andata a ingrossare un popolo della strada che nella sola contea di Los Angeles annovera oltre 120 mila persone.
Tendopoli spuntano a downtown Los Angeles, San Francisco, Fresno, Sacramento, nei canyon c attorno a San Diego. La verità è che qui, come in ogni città americana, vive una classe invisibile, abbandonata a se stessa. «Cerchiamo di fare quel che possiamo per loro», mi spiega la coordinatrice delle Catholic charities, che a Tent city gestisce, quando può, la distribuzione di generi alimentari, «ma i problemi sono strutturali. Per questa gente non esistono reti di sicurezza e il problema si aggraverà ora che sempre più persone sono destinate a perdere la casa».
Per la crisi dei mutui subprime, nel paese più ricco e potente del mondo è destinata a dilatarsi la scandalosa moltitudine di cittadini che pernottano in automobili, su marciapiedi, in scatole di cartone, a volte coi figli, spesso con un lavoro e però sotto la soglia della povertà. La casa è l'epicentro della crisi di un'economia che ha scoperto di aver basato un decennio di espansione su un bluff, quello dei mutui che hanno drogato lo sviluppo con massicce dosi di ricchezza virtuale prelevate dalla bolla immobiliare. Una speculazione gigantesca con la connivenza della finanza che ha piantato i pilastri dei colossi di Wall Street nell'argilla del precariato marginale, della new poverty. Un intero settore è nato attorno al business del credito proditorio, della vendita di case a chi non avrebbe mai potuto permettersele, con promesse di mutui capestro a basso tasso d'interesse iniziale ma con giganteschi costi nascosti, pagamenti «pallone» destinati a scattare pochi anni dopo, affogando i mutuatari.
Il tour dei profittatori
Milioni di questi mutui subprime sono stati poi venduti dai creditori originali in pacchetti con eufemismo definiti «prodotti finanziari innovativi», via via ad altre banche e fondi di investimento, «ripuliti» e passati di banca in banca, spargendo il virus in fondi ed hedge funds, risalendo la china dall'immobiliare loffio di periferia alla finanza rarefatta di Wall Street. Riciclaggio insomma. Se non di denaro, di «cattivo rischio» sempre più diluito e lontano dalle sue equivoche radici.
Operazioni al limite della truffa che sono figlie morali della deregulation dell'era Enron e Halliburton e che ora hanno pagato i dividendi di un'economia della povertà, un liberismo rapace e neo reaganiano che mette in conto una classe permanente di senzatetto mentre sgrava le tasse ai ricchi, tende trappole ai poveri e avalla l'economia ombra delle grandi corporations finanziarie che operano al di fuori di ogni regulation. Oggi, dopo il collasso, il debito collettivo delle ipoteche supera di 839 miliardi di dollari il valore complessivo dei beni immobili e il parere maggioritario degli addetti è che siamo solo gli inizi. Non che ci sia bisogno di esperti per confermare l'attuale stato delle cose - basterebbe iscriversi a uno delle dozzine di foreclosure tours («foreclosure» è l'esproprio di una casa da parte della banca creditrice quando il mutuo va in sofferenza: e nei prossimi 12 mesi sono previste un milione di nuove foreclosures).
I «tour» organizzati da agenti immobiliari partono ogni settimana dalle principali città americane caricando potenziali compratori alla ricerca di una affare imperdibile nelle periferie punteggiate di case ipotecate - una nuova speculazione sul sogno americano. Intanto a Tent City si sbaracca. Come dice Michael: «A noi, a tutta questa gente, basterebbe ridare una misura di dignità, come fece Franklin Roosevelt quando rimise in piedi questo paese e fece tornare la gente al lavoro. È tutto quello che chiediamo».
(di LUCA CELADA) - Los Angeles
In breve: “Social Security” e “Medicare” a rischio di «insostenibilità».
Il welfare statunitense è a rischio di «insostenibilità finanziaria». A lanciare l'allarme è stato ieri il segretario del Tesoro statunitense, Henry Paulson, in qualità di membro del board del programma federale di Social security, e in occasione della presentazione del rapporto annuale sullo stato di salute finanziaria dei due programmi: quello previdenziale (Social security) e quello sanitario (Medicare). L'allarme era già stato lanciato lo scorso anno, ma l'insostenibilità finanziaria, dice il rapporto presentato ieri, si farà sentire molto prima di quanto già previsto. Per quanto riguarda l'assistenza sanitaria (Medicare), il rapporto tra entrate e spesa sarà deficitario già da quest'anno, mentre per il programma previdenziale la soglia è prevista per il 2017, ma il declino inizierà a farsi sentire dal 2011 in concomitanza con il pensionamento della generazione dei baby boomers. «Le difficoltà finanziarie pongono una sfida enorme, a cui si dovrà dare presto una risposta - ha detto Paulson - Senza un cambiamento la spesa del governo salirà a un livello insostenibile». O si innalza il livello di tassazione (cosa che non piace ai repubblicani), o si abbassano le prestazioni (a cui sono contrari i democratici). Paulson ha richiamato ieri la necessità di una soluzione bipartisan, ma non ha convinto i democratici.
Il Manifesto
mercoledì 26 marzo 2008
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