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Merda & merdaccia.

intervista a Massimo Carlotto di Gianni Belloni [da Carta n.26/2007] Nel gergo di Gigi Vianello, il protagonista di «Mi fido di te», «merda» e «merdaccia» hanno un senso preciso. «Merda» sono gli alimenti con un livello medio/ basso di sofisticazione. Sono quelli che, a dosi piccole, fanno danni solo nel lungo periodo. «Merdaccia», invece, è il cibo talmente irriconoscibile e mutato chimicamente da poter essere anche letale. La «merda» è destinata al mercato italiano, la «merdaccia » invece finisce spesso in Grecia. Spesso, ma non sempre. Dopo aver letto il romanzo di Massimo Carlotto e Francesco Abate gli scaffali del supermercato diventano un campo minato: ci si aggira guardinghi, cercando di evitare tutto ciò che più facilmente si presta alla manipolazione chimica. «Mi fido di te», però, è anche un trita- miti: quello del nordest onesto e operoso, già massacrato da Carlotto e Marco Videtta in «Nordest» [edizioni e/o, 2006], ma anche quello della Sardegna «felix», che Abate aveva sviscerato in «Getsemani» [Frassinelli, 2006]. E soprattutto il mito del cibo italiano, che in tempi di globalizzazione del gusto e di arroccamenti gastroleghisti diventa il fondamento di identità inventate, nazionali, locali e perfino familiari.

Per come le descrivete, le sofisticazioni alimentari sembrano un elemento strutturale del moderno mercato del cibo e non un «prodotto di scarto» o residuale. Quanto è esteso il fenomeno? Il sistema alimentare moderno, nella sua dimensione industriale, è sofisticato di fatto. In generale gli alimenti sono di qualità medio bassa e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, sono responsabili dell’insorgere di tumori, diabete e malattie cardiovascolari. La scelta del profitto a danno della qualità ha portato all’eliminazione delle sostanze «buone», come vitamine, minerali e acidi grassi, e la loro sostituzione con quantità nocive di zuccheri, sale e grassi idrogenati. Inoltre, la struttura del sistema facilita la circolazione e l’assorbimento da parte del mercato di alimenti completamente sofisticati e di provenienza illecita. Già nel 2004 la Direzione investigativa antimafia aveva preso atto del coinvolgimento organico della camorra nella sofisticazione alimentare in Campania. Ma tutte le cosiddette organizzazioni criminali transnazionali investono uomini e mezzi in questo settore. Rischi bassissimi, ottimi guadagni, e possibilità di riciclare grandi quantità di denaro sporco. «Siamo ciò che mangiamo»: nel vostro libro emerge con evidenza, insieme ai traffici dei cibi adulterati, una società involgarita. Si tratta di un legame indissolubile? Sì. Raccontare una storia criminale è una scusa per raccontare la realtà politica, sociale, economica e storica che circonda gli avvenimenti narrati nel romanzo. Nel nostro caso abbiamo voluto usare l’inchiesta sulla sofisticazione come metafora di una società sempre più adulterata e finta, lontana dai bisogni reali delle persone. Le grandi multinazionali dell’industria alimentare spendono ogni anno 20 miliardi di dollari per le ricerche su nuovi sapori e nuovi colori. Il fine è solo estetico, non qualitativo. Un’aberrazione che riflette molti aspetti della società in cui viviamo. Thailandia, Cina, Brasile, Olanda: triangolazioni globali del mercato del cibo: com’è possibile che i controlli vengano elusi con tanta disinvoltura? Le leggi che regolano la qualità dei prodotti e la loro circolazione sono notoriamente insufficienti, ma quello che accade oggi a livello europeo dimostra l’influenza di vere e proprie lobby, al servizio dell’industria alimentare, che operano sul piano legislativo per rendere legali prodotti e procedure industriali nocive per la salute dei consumatori. L’unica cosa di cui sembrano aver timore i contraffattori sono le associazioni di consumatori. Possono avere davvero tanto potere? Le associazioni dei consumatori vigilano sulla qualità degli alimenti in totale indipendenza. I test sui prodotti sono molto temuti perché sono obiettivi, ma i risultati raggiungono a livello informativo un numero limitato di persone. Da molti anni sono socio di Altroconsumo e devo ammettere che mi ha insegnato ad essere un consumatore «intelligente », e la rivista è ormai una guida indispensabile nell’acquisto. L’associazione da anni si batte su molti fronti con esiti alterni e questo dipende, come ben sappiamo, dai rapporti di forza in campo politico ma, in generale, non ha la forza per controbattere il potere persuasivo della pubblicità. Nel libro descrivete le serate di degustazione dei vini e insieme i traffici per la loro adulterazione. Accompagnato da una vera e propria ossessione per il cibo e il vino raffinato assistiamo al disastro che ben descrivi. Solo i ricchi si possono salvare dalla «merda » e dalla «merdaccia» della contraffazione alimentare? Un consumatore ben informato si può difendere bene anche senza essere ricco. Il fatto è che la qualità degli alimenti è molto stratificata. La sinistra se ne è resa conto anni da, riscoprendo il «gusto» e il rapporto tra qualità dei prodotti enogastronomici e qualità della vita, e molto è stato fatto in questa direzione anche in campo internazionale. Il problema è che la qualità costa, e soprattutto la qualità è business. E non tutti se la possono permettere. Le differenze di classe sono immediatamente riscontrabili nella cultura enogastronomica delle persone e nei contenuti dei frigoriferi e delle cantine. Bisogna distinguere anche tra medio, buono ed eccellente. Quest’ultimo è alla portata dei redditi alti. Quale livello di corruzione avete riscontrato nelle vostre indagini tra chi dovrebbe fare i controlli? La corruzione è un passaggio necessario in questa attività criminale. Ripercorrendo le numerose inchieste dei Nas e della magistratura abbiamo sempre riscontrato la presenza di indagati o imputati tra coloro che, per legge, dovevano vegliare sulla qualità dei prodotti e quindi sulla nostra salute. Ci siamo resi conto che l’opinione pubblica dà per scontata l’esistenza della corruzione ma è ben lontana dall’avere la percezione esatta della vastità del fenomeno.

A leggere il vostro libro sembra che non ci sia etichetta o marchio di qualità che tenga: tutto può essere falsificato. È così? I marchi di certificazione vengono utilizzati per rivestire a nuovo cibo scadente? Tutto viene rigorosamente falsificato. Il recente scandalo del dentifricio cinese è un esempio perfetto. Addirittura le sigarette di contrabbando sono fasulle. Il pacchetto è identico ma il tabacco è pessimo e, se possibile, più nocivo. Il marchio non è più sufficiente a dimostrare una certa qualità, e nel settore alimentare è difficilissimo individuare questa merce infiltrata. Con questo libro torni anche nel nordest, simboleggiato dalla famiglia Sambin, malavitosi attaccati alla ricchezza e al consumismo, ma anche ai cosiddetti «valori della famiglia». Ma il nordest non cambia mai? No. Non solo insiste pervicacemente a volerci far mangiare a tutti i costi le vongole nate e cresciute nelle acque che lambiscono Porto Marghera, ma riesce a coniugare i valori tradizionali della campagna e nuovi modelli economici anche nell’illegalità. Non a caso il nordest viene considerato come il più importante laboratorio criminale d’Europa, dove la connessione tra economia legale e illegale produce merci e ricchezza e cultura criminale di alto profilo. Tra le cose che avete indagato e scoperto, e che raccontate nel libro, qual è quella che vi ha colpito, o inorridito di più? In realtà è una cosa che non abbiamo scritto e riguarda la pubblicità. Quello che vediamo sui giornali o alla televisione e che ci appare così bello e buono, generalmente è finto. Gomma, plastica, cartone, gelatine e colori vengono usati per riprodurre l’immagine di alimenti che hanno già il difetto di essere di qualità medio bassa. Ci ha impressionato il livello di inganno dell’offerta pubblicitaria. La metamorfosi dei gabbiani, incattiviti e oramai carnivori, è l’immagine che usate per descrivere tutti noi. Ma ci sono anche movimenti che cercano di andare in direzioni diverse recuperando un rapporto tra chi produce il cibo e chi lo consuma: hai avuto modo di confrontarti anche con loro, dopo l’uscita del libro? Certo. E il libro è stato scritto pensando ai movimenti e all’importanza strategica del loro agire. Molti lettori ci hanno chiesto un confronto e una proposta. Noi siamo convinti dell’importanza della filiera corta per i prodotti coltivabili in loco e dello sviluppo del mercato equo-solidale per tutti gli altri. Noi siamo solo autori di «noir» ma il tema è così importante che siamo stati costretti a uscire dal nostro ruolo e a esprimerci in termini «direttamente» politici. È la prima volta che un romanzo produce un effetto collaterale del genere, ma noi ne siamo ben contenti perché significa che il «noir» è uno strumento che permette di sviluppare inchieste di ampio respiro. La nostra è durata due anni. Come si compra il silenzio dei cosiddetti grandi media su questi argomenti? Per esempio, è molto difficile che un saggio sulle problematiche dell’industria alimentare venga recensito con evidenza dai media e il motivo è molto semplice: si chiama pubblicità. Quella del settore fa circolare un sacco di quattrini, troppi per rischiare di perderla. Trovano spazio solo le notizie legate alla rete criminale vera e propria. E a volte nemmeno quelle.

Cibo indipendente, stampa indipendente: un nesso paradossale? No, anzi. È la strada da percorrere. E bisogna farlo senza perdere altro tempo. Si parla ancora troppo poco di qualità del cibo e invece dovremmo informare di più i cittadini-consumatori per costruire insieme nuove strategie.
www.carta.org

lunedì 16 luglio 2007


 
News

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