Milano, viaggio nelle «dark kitchen»: i capannoni fantasma dove si preparano sushi, pizze e gli altri pasti che ci consegnano i rider.
Lo studio del Politecnico: sono almeno sei le grandi cucine che funzionano solo per il delivery. Il direttore del Dastu Massimo Bricocoli: «Non è una semplice delocalizzazione produttiva ma un processo che ha ricadute urbanistiche».
Ore 20. In una via defilata del quartiere Greco non passa nessuno tranne decine di rider. Il via vai è consistente. Si fermano davanti a un cancello chiuso e coperto di «tag», assediato dalla spazzatura. Il kit di Glovo, Deliveroo o Just Eat diventa una sorta di «dress code» per poter accedere. Daniel Hagos, 29 anni e origini eritree, sguscia dentro in fretta con la sua bici, seguito da altri colleghi. «Il cliente che ha ordinato su una piattaforma il sushi, la pizza o il pollo fritto in un ristorante che conosce suppone venga preparato lì: in realtà noi rider lo andiamo a prendere da tutt’altra parte, in una dark kitchen», racconta. Per arrotondare fa consegne ma è anche studente e ha indagato questo mondo per conto del Dastu, il Dipartimento Studi urbani del Politecnico dove frequenta la magistrale in Urban planning and Policy design.
Sono capannoni industriali e nascondono cucine che funzionano solo per il delivery. Ad esempio a Greco ce ne sono ventiquattro, efficienti e attrezzate, una per ciascun marchio. C’è di tutto, con un certo turnover. Insegne note con un boom di ordini online che altrimenti non riuscirebbero a soddisfare e altre invece che a sorpresa si rivelano solo virtuali, senza un ristorante fisico: come vetrina usano gli «aggregatori» (Deliveroo, Glovo o Just Eat) oppure un proprio sito («in questo caso spesso si servono di piattaforme come Poony e Stuart che hanno commissioni meno care»).
L’immagine non è la stessa che vedere un bel ristorante: «Qui la via è buia, con bidoni e sacchi dell’immondizia tutto intorno. Chissà se i clienti, sapendo che a preparare i piatti è una cucina invisibile, sarebbero diffidenti? — chiede Daniel —. Nel sistema delle consegne la fretta regola anche le minime interazioni umane tra colleghi nei punti di ritiro e consegna ma tensioni e impazienza restano nascoste dietro al cancello».
Per il direttore del Dastu Massimo Bricocoli non è una semplice delocalizzazione produttiva ma un processo che ha ricadute urbanistiche e sociali: «Il lavoro di ricerca che stiamo conducendo insieme agli studenti di Etnografia urbana della scuola di Architettura disvela le modalità non banali e non sempre visibili con cui le piattaforme hanno iniziato a trasformare il funzionamento e l’organizzazione degli spazi della città con ripercussioni a tanti livelli — dice Bricocoli —. Analizzarle è fondamentale per pianificare e progettare il futuro di Milano».
Secondo le testimonianze dei rider le dark kitchen sarebbero almeno sei. Per chi fa ristorazione è un risparmio: si sfruttano le sinergie, ad esempio per lo stoccaggio della merce, e si risparmia sulla location, come fosse un co-working culinario. I cinquemila rider di Milano (stime del Politecnico) gestiscono consegne che crescono del 9% con un mercato diviso tra Glovo e Deliveroo, con Just Eat che ha una quota inferiore. La dark kitchen di Greco è tra le più nascoste. Nella sala d’attesa con le scritte in tutte le lingue ad accogliere è Elisa, già studentessa di Economia e Commercio e lei stessa ex rider. Le porte che danno sulle varie cucine hanno solo numeri e restano rigorosamente chiuse. Forse i marchi non comunicano volentieri di essere lì. Il monitor al muro mostra lo stato degli ordini in preparazione. Ogni attesa sembra troppo lunga, ma sono pochi minuti. A Daniel consegnano il pacco. Lui inforca la bici, il cancello si apre e fila via.
(di Elisabetta Andreis - https://milano.corriere.it)
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lunedì 2 dicembre 2024
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