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La Cassazione stabilisce il salario minimo per sentenza.

La Corte Suprema anticipa il governo con una sentenza storica: "Dai contratti collettivi ci si può discostare". E la ministra del Lavoro Calderone è costretta ad ammettere: "Il Cnel terrà conto di quanto detto dai giudici". Il governo prende tempo e la Cassazione interviene. Il salario minimo è realtà. Introdotto non da una legge, ma per sentenza. Una decisione destinata a fare la storia – la numero 27711/23 – con la quale i supremi giudici del Palazzaccio hanno stabilito che la retribuzione minima di un lavoratore può essere fissata anche dai tribunali. Perché uno stipendio deve essere effettivamente proporzionato a quanto recita l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Un'affermazione di principio che mette dunque in secondo piano la centralità della contrattazione collettiva, del ruolo dei sindacati, nello stabilire il livello della retribuzione. Che è l’argomento principale, utilizzato ancora oggi dalla maggioranza di centrodestra, per frenare l’introduzione di un salario minimo per legge in Italia. Ed ecco, dunque, che arriva il salario minimo per sentenza. Le opposizioni, ovviamente, esultano, da Carlo Calenda a Elly Schlein. Dalle parti del centrodestra, a ventiquattro ore dal deposito della sentenza, c'è solo freddezza. L'unica a prendere posizione è la ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, che da subito cerca di evitare la contrapposizione: "Bisogna tenere conto dei giudici quando dicono che la contrattazione da sola non basta".

Da dove nasce la sentenza? La 27711 ha dato ragione al dipendente di una cooperativa, la Servizi Fiduciari di Torino, una guardia giurata impiegata in un supermercato, che ha avuto la brillante idea – tramite il suo avvocato – di rivolgersi a un tribunale per chiedere un aumento di stipendio. Il contratto collettivo nazionale di lavoro della vigilanza privata, infatti, è uno di quelli con le paghe più basse dell’intero mondo dei contratti collettivi italiani. Il vigilantes ha fatto causa alla sua cooperativa perché guadagnava 830 euro lordi al mese. Che netti sono 650. Salario da fame, se si pensa che si tratta di un lavoro full time. La domanda dell’avvocato ai giudici è se queste cifre fossero rispettose dell’articolo 36 della Costituzione. La risposta del tribunale ordinario è sì, quella paga, anche se stabilita su quel livello da un contratto collettivo legale, è inferiore addirittura alla soglia di povertà che l’Istat stabilisce in 834,66 euro. Quindi la busta paga va integrata. La Cassazione, terzo grado di giudizio, fa un ulteriore passo in avanti rispetto alle toghe torinesi: non si può fare riferimento semplicemente alla soglia di povertà dell’Istat per stabilire se uno stipendio è costituzionale. I giudici supremi fissano dunque una serie di condizioni, come si legge nella sentenza depositata ieri. Il giudice deve in via preliminare fare riferimento alla contrattazione nazionale di categoria, dalla quale però può “motivatamente discostarsi” se questa è in contrasto con il principio di proporzionalità e sufficienza fissati dalla Costituzione. Tradotto: la contrattazione collettiva non viene prima di tutto, come invece ha sostenuto, nei mesi precedenti, la premier Giorgia Meloni, in occasione dei ripetuti assalti delle opposizioni, magicamente unite quasi solo su questo argomento. Altro paletto: se il salario di un contratto collettivo è da fame, allora il giudice, ai fini della determinazione del “giusto salario minimo costituzionale”, può riferirsi a contratti collettivi di settori affini. Ovviamente al rialzo. Infine, il giudice chiamato a decidere, di volta in volta, su un salario troppo basso, può fare riferimento a indicatori economici e statistici, come suggerito da una direttiva Ue del 2022, per la quale il salario non deve solo consentire di uscire dalla povertà, ma anche di partecipare “ad attività culturali, educative e sociali”.

Una sentenza che, manco a dirlo, fornisce un assist insperato alle opposizioni, che a inizio settembre si erano dovute piegare alla decisione della maggioranza di rinviare la discussione di un disegno di legge a firma unitaria di Pd, M5s, Azione e Sinistra Italiana attribuendo al Cnel guidato da Renato Brunetta l’incarico di lavorare a una proposta da discutere entro i successivi tre mesi. “Con la sentenza che conferma la necessità di un salario minimo legale, la Cassazione è arrivata dove invece fino a ora il governo ha temporeggiato” è la reazione a caldo del leader di Azione, Carlo Calenda: “Una decisione importante, che semplicemente riafferma quanto da tempo denunciamo sul lavoro povero. Basta ritardi: dimostriamo che anche la politica sa riconoscere che il diritto a uno stipendio dignitoso è garantito da Costituzione”. La 27711, rivendica la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, è una “sentenza storica”, una conferma della necessità e dell’urgenza “di stabilire un salario minimo secondo i principi stabiliti dalla Costituzione” dice la deputata ed ex vicepresidente dell’Emilia-Romagna, che sulla retribuzione minima legale, quest’anno, ha puntato molte delle sue fiches da neo-leader dem: “Il governo su questo tema continua invece a fare il gioco delle tre carte, incurante delle condizioni reali di tante lavoratrici e lavoratori in questo Paese”.

Se la sentenza pone come “ineludibile” il “tema di un salario minimo legale” afferma il capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra alla Camera, Marco Grimaldi, anche i Cinque Stelle esultano, sottolineando come la contrattazione collettiva “non può comprimere il giusto livello salariale. Di fronte a questo storico consolidamento giurisprudenziale – si legge in una nota dei parlamentari M5s appartenenti alle commissioni Lavoro di Montecitorio e Palazzo Madama – il M5s è convinto che l'approvazione del salario minimo legale sia un passaggio non più rinviabile nel nostro paese”. Dopo ventiquattro ore dai partiti di maggioranza c'è silenzio. L'unica a parlare, cercando di limitare i 'danni' alla posizione del governo derivanti dalla sentenza, è la ministra del Lavoro Calderone: "Il salario minimo per legge - ricorda - dimentica la contrattazione che ha dato luogo a una stagione importante di rinnovi". Bisogna però anche "tenere conto dei giudici quando dicono che la contrattazione da sola non basta". "Questo - rimarca intervenendo al Tg4 - è il lavoro che farà il Cnel". (Autore: Luca Bianco - www.huffingtonpost.it)
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martedì 3 ottobre 2023


 
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