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1° MAGGIO: ancora una riflessione.

Per i giovani la Festa dei lavoratori è solo un numero sul calendario, non c'è niente da celebrare. Anzi, c'è da lottare. Il lavoro è tornato a essere schiavitù, impoverito da decenni di politiche senza senso né prospettiva se non quella di spostare definitivamente l'ago della bilancia verso il capitale. Il Covid ha fatto crollare un'impalcatura instabile, ma rappresenta anche un punto di rottura. Più i grandi imprenditori di questo Paese vanno nei salotti televisivi a piagnucolare e a lamentarsi che i ragazzi non vogliono sporcarsi le mani e più significa che qualcosa sta cambiando. Significa che questa generazione può vincere e ribaltare un modello schiavista. Perché questo è diventato il lavoro oggi per i giovani, ribadiamolo: schiavitù. Oggi c'è bisogno di dire no, ma non tutti possono permetterselo.

I dati pubblicati dai vari istituti negli ultimi mesi sono stati particolarmente impietosi: i salari fermi da trent'anni da record europeo, il tasso di disoccupazione giovanile alle stelle, il numero di neet – giovani che non studiano e non lavorano – che ha superato i tre milioni, di cui un milione cerca e non trova lavoro. E poi la grande ripresa dopo il Covid che ci hanno tanto sponsorizzato, con il boom di contratti che non si possono neanche più definire a tempo determinato: la durata è ridicola, da pochi giorni a meno di un mese. Nonostante ciò il falso mito dei giovani mammoni rimane, anche perché l'età media in cui gli italiani lasciano la casa dei genitori è 30,2 anni. Per capirci: in Francia è 24 anni, in Germania 23,8. Senza arrivare ai 17,5 in Svezia o ai 21,2 in Danimarca. Chi legge dietro questi dati una pigrizia generazionale è in malafede, perché si tratta esclusivamente dell'ennesimo indicatore economico che ci dice che questo modello è insostenibile.

Il livello di rabbia e la frustrazione provate da chi ha studiato, si è formato e ha fatto un percorso quando arriva sul mercato del lavoro è indescrivibile. Bisognerebbe provarla sulla propria pelle o sforzarsi di mettersi nei panni di una generazione non garantita. Ma si tratta di uno sforzo impensabile per la classe dirigente italiana. È più facile dare spazio a chef famosi come Alessandro Borghese, spellandosi le mani per applaudirli mentre ricevono l'endorsement di Briatore, che gettano fango su una generazione intera. C'è una parte della classe dirigente che però si riempie la bocca di promesse, di "patti generazionali". Soprattutto a sinistra. La stessa che ha precarizzato definitivamente il mercato del lavoro condannando i giovani. In pentola, però, non bolle mai nulla. Sono solo parole vuote.

È il momento di riscoprire il Primo maggio come giornata di lotta, non di festa. Ricordare le battaglie fatte in passato e prenderle d'ispirazione per il futuro. Se il Covid ha avuto il merito di far riscoprire l'importanza del tempo, rompendo un paradigma consolidato di lacrime e sangue, ben venga. Ma c'è chi non può permettersi di rifiutare cinque euro l'ora, c'è chi non può fare a meno di lavorare, c'è chi non ha la possibilità di fuggire all'estero, c'è chi non ha la pensione dei genitori a garanzia. C'è chi è schiavo in un Paese moderno e democratico, o almeno così ama definirsi l'Italia. Vessato da stage gratuiti, tirocini non retribuiti e paghe da fame. Il tutto condito dal senso di colpa nei confronti di quel milione di ragazzi, che sono amici e amiche, fratelli e sorelle in questa miseria, che non hanno neanche questo. Neanche quei cinque euro l'ora. Il lavoro è dignità e futuro, ma per i giovani non è più così. Qualcuno dovrà pagare il conto prima o poi. (fonte Fanpage.it - autore Tommaso Coluzzi)
Fanpage.it

lunedì 2 maggio 2022


 
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