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Le biomasse nel futuro dell’agricoltura.

Un’occasione per gli agricoltori o un business destinato a sgonfiarsi? Le bioenergie, anche se il loro contributo alla soluzione del problema energetico è solo marginale, rappresentano, se ben utilizzate, un’occasione per gli agricoltori, che in questo modo possono trovare nuovi sbocchi per le loro coltivazioni e anche un’opportunità per fare un’operazione di tutela e di valorizzazione ambientale, riducendo la pressione produttiva sul territorio. Tuttavia, è necessario che i regolamenti siano impostati correttamente per evitare che il business delle bioenergie trasformi l’agricoltura in una sorta di grande pattumiera in cui scaricare senza alcun controllo i reflui che si originano dai processi di produzione e trasformazione delle biomasse. Ciò avrebbe conseguenze deleterie oltre che sull’ambiente agrario anche sulla salute stessa dei cittadini.

Dopo l’avvento dell’agricoltura supermeccanizzata e della monocoltura, che ha ridotto il bel paesaggio agrario a poco più di una spianata, squallida e informe come una steppa, adesso è arrivato il turno delle Biomasse Fer (Fonti Energetiche Rinnovabili), che sotto la maschera delle coltivazioni ecocompatibili, dell’agricoltura al servizio dell’ambiente, potrebbero assestare il colpo definitivo a un territorio rurale già moribondo per mille altre ragioni. Naturalmente a scatenare l’interesse verso queste nuove forme di agricoltura no food non è tanto l’annosa questione delle fonti energetiche alternative, come il protocollo di Kyoto imporrebbe visto che il nostro Paese è firmatario di questo accordo insieme ad altre 160 Nazioni nel mondo, quanto piuttosto il mercato, che da una parte sta penalizzando come non mai le coltivazioni convenzionali (attualmente non vi è un settore in cui i prezzi siano remunerativi) e dall’altra l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, che fa intravedere il business delle energie alternative da biomasse. Ecco che allora minicentrali termoelettriche, impianti a biogas, coltivazioni di oleaginose per la produzione di biodisel, stanno spuntando un po’ dappertutto e rappresentano fra gli addetti ai lavori il tema ricorrente del momento, come lo sono stati in passato argomenti quali l’allevamento delle chiocciole, piuttosto che quello degli struzzi, per non parlare dei lombrichi, che secondo alcuni autorevoli esperti doveva rappresentare la vera svolta per l’agricoltura italiana. A parte gli scherzi, le biomasse, se fossero sviluppate seriamente all’interno di un piano strategico nazionale e comunitario, potrebbero veramente rappresentare una svolta per l’agricoltura italiana ed europea. Ma poiché tutto questo è di là da venire e la frenesia del momento è tutta dovuta alle contingenze del mercato, forse se ne parlerà ancora per qualche anno, se poi il prezzo del petrolio tornerà a diminuire e i mercati agricoli convenzionali a ritrovare nuovi equilibri nessuno più si occuperà di biomasse, magari demandando gli impegni assunti in materia di gas serra a Paesi del terzo mondo, acquistando da loro i certificati verdi. D’altra parte abbiamo un esempio molto significativo che risale a circa 25 anni fa, quando all’indomani della crisi petrolifera che seguì alle rivendicazioni dei paesi Opec fiorirono tutta una serie di iniziative per cercare di ridurre la dipendenza dal petrolio. Il risparmio energetico, che secondo autorevoli esperti è la più importante fonte di energia alternativa rinnovabile, gli impianti a biogas, il solare termico furono solo alcune delle tecnologie per lo sfruttamento delle energie alternative che trovarono interesse sia dal punto di vista della ricerca sia sotto il profilo della produzione effettiva di energia. Vi fu un grosso interesse anche in ambito universitario, tanto che molte risorse umane e finanziarie furono investite in questo settore. Poi però il prezzo del petrolio tornò a 12 dollari il barile e tutto finì, come un bel sogno svanito all’improvviso. Temo purtroppo che anche questa volta potrebbe accadere la stessa cosa, ma con conseguenze sull’ambiente e sul paesaggio agrario assai più gravi di quelle che vi sono state 25 anni fa. L’emissione di gas serra e i cambiamenti climatici E’ ormai universalmente noto e accertato l’effetto disastroso che il surriscaldamento del pianeta, come conseguenza dell’effetto serra dovuto all’aumento di CO2 in atmosfera – a sua volta determinato dall’impiego dei combustibili fossili (petrolio, gas naturale, carbone) – ha sul clima e sull’ecosistema terrestre. Se soltanto 15 anni fa erano pochi gli studiosi disposti ha scommettere sulla correlazione fra aumento di CO2 e cambiamenti climatici, oggi, anche alla luce dei recenti fatti meteorologici che hanno colpito il continente americano, gli scienziati cosiddetti ottimisti, ossia coloro che non ammettono le interazioni fra comportamenti umani e cambiamenti climatici, si sono ridotti a poche unità, fra l’altro con scarsa autorevolezza scientifica. Un grande scienziato italiano, il premio Nobel professor Rubbia ha più volte affermato che per ogni anno di combustibili fossili bruciati, la composizione dell’atmosfera terrestre ritorna indietro nella sua storia evolutiva di un milione di anni. Attualmente si parla di cambiamenti climatici, ma è chiaro che se il ritmo di esaurimento delle biomasse fossili dovesse continuare così ancora per qualche centinaio di anni, potrebbe diminuire sensibilmente anche il tenore di ossigeno dell’aria, ponendo seri problemi di sopravvivenza agli animali a sangue caldo, fra cui l’uomo. E’ chiaro quindi che occorre trovare una soluzione alternativa ai combustibili fossili e questo, almeno per il momento, non può che venire dallo sfruttamento diretto o indiretto dell’energia solare. Si potrebbe obiettare che esiste anche il nucleare. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, in questo settore l’unica tecnologia possibile è la fissione nucleare, che per la sua realizzazione necessita di minerali dotati di radioattività naturale come l’uranio, che in natura è più scarso del petrolio. A parte l’impatto sull’ambiente che il nucleare comporta - per lo stoccaggio delle scorie, ma ancor di più per il reperimento dell’uranio - la scarsa disponibilità di materiale radioattivo presente in natura potrebbe portare le riserve di uranio a esaurirsi prima ancora del petrolio e del gas naturale. E allora l’unica fonte di energia pulita a disposizione è il sole, che naturalmente può essere raggiunta attraverso strade diverse: l’eolico, l’idroelettrico, il solare termico, il solare fotovoltaico, il solare termodinamico e naturalmente le biomasse. Se, tuttavia, si considera la quantità di energia solare che possiamo captare attraverso le diverse tecnologie disponibili, si può notare che quella derivabile dalle biomasse è assai poca cosa (tabella 1). Essa è 1/30 di quella che può essere fissata con un pannello a celle fotovoltaiche e 1/20 di quella captabile attraverso l’impiego di pale eoliche. Ciò perché la quantità di energia che le piante superiori riescono a fissare attraverso il processo fotosintetico è meno dell’1% della radiazione solare che raggiunge la superficie terrestre (Coiante, 2004), con variazioni minime a seconda della specie vegetale e dell’ambiente considerati. Naturalmente si tratta di energia nobile, la sola che possa essere utilizzata dai viventi per le loro necessità, tuttavia disponibile in quantità assai limitate. Il contributo che le biomasse possono dare alla soluzione del problema energetico Possiamo quindi pensare di risolvere il problema energetico puntando sulle biomasse, sottraendo superfici agricole alle produzioni alimentari, quando i 2/3 della popolazione mondiale soffrono la fame? Fra l’altro in un contesto in cui l’incremento demografico è stimato attorno agli 80 milioni di individui l’anno? Evidentemente no. Anzi si dovrebbe fare il contrario. Oggi le bioenergie coprono circa il 14% del fabbisogno energetico mondiale e circa il 3 - 4% di quello europeo. Sono molto più sfruttate nei Paesi poveri che in quelli ricchi. Ciò tuttavia non è un fatto positivo, perché la distruzione delle foreste per trarne legna da ardere come sta succedendo in diverse località dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina costituisce un serio pericolo per l’ambiente locale e per la stabilità del clima a livello planetario. E’ una strana situazione: le Nazioni povere, che avrebbero bisogno di alimenti, sono costrette a utilizzare parte delle risorse agricole e forestali per scopi energetici, rischiando di intaccare la loro capacità produttiva, mentre quelli ricchi che hanno sistemi agricoli molto più efficienti producono troppo e rischiano di soffocare sotto il peso delle eccedenze alimentari. L’ideale sarebbe che i Paesi ricchi, molto più bravi nella produzione di derrate alimentari, potessero vendere questi prodotti a quelli poveri, evitando che questi ultimi a loro volta vadano a intaccare le risorse naturali giudicate strategiche dal punto di vista ambientale. In attesa che questo sogno possa realizzarsi, si deve fare i conti con la realtà, e quest’ultima suggerisce che nei prossimi anni la produzione di bioenergie negli Stati ricchi, in parte per adempiere agli impegni assunti con la sottoscrizione del protocollo di Kyoto e in parte per ragioni dovute alle eccedenze alimentari, sia destinata ad aumentare. Ma di quanto? Nell’Ue si producono 65 Mtep/anno (1) di energia da biomasse, ma si prevede che tale produzione possa passare a 130 Mtep/anno entro il 2010. Il Libro Bianco Europeo sulle Risorse Rinnovabili (1997) prevede che l’utilizzo della biomassa potrà consentire, entro il 2010, un risparmio di combustibili fossili di almeno 45 Mtep/anno, di cui i 2/3 attraverso il recupero di residui e sottoprodotti forestali, agricoli e dell’industria del legno, e 1/3 da colture dedicate. L’uso principale è per impianti decentralizzati per la produzione di elettricità e calore (20 GWt e 60 GWt, con risparmi di 27 Mtep/anno). Nel 2003 in Italia la produzione di energia da biomasse è stata di 5,3 Mtep, pari al 31% di tutte le Fer, ma si prevede che essa possa aumentare sino a raggiungere le 10 Mtep nel 2010 (Enea). Obiettivo questo largamente in ritardo sulle previsioni. Se si pensa però che i consumi di petrolio in Italia ammontano a 90 Mtep, e che a loro volta rappresentano soltanto il 46 % dei consumi energetici nazionali, si tratta comunque di poca cosa. Se per pura ipotesi si destinasse a biomasse Fer tutta la superficie a seminativo italiana (stimata in 8 milioni di ha) si produrrebbero (a colza) 2,4 Mtep di biocarburante, che rappresenta il 2,6 % del consumo annuo di petrolio (tabella 2). Anche nella migliore delle ipotesi le biomasse sono destinate ad avere un ruolo piuttosto modesto, se poi a questo si aggiunge l’effetto non sempre positivo sull’ambiente e sul territorio rurale (aumento delle superfici arabili a scapito delle colture poliennali, aumento dell’intensità produttiva in aree marginali, riduzione della sostanza organica nei terreni, riduzione della diversità biologica ecc.) e la competizione nello sfruttamento delle risorse naturali con il sistema alimentare, la possibilità che questo genere di risorse possa effettivamente rappresentare un’alternativa ai combustibili fossili è alquanto remota. Vpiù importante. Tuttavia, poiché la soluzione del problema dipendenza dal petrolio non è ottenibile puntando in una sola direzione, ma attraverso lo sfruttamento di una molteplicità di risorse, allora in questo contesto anche le biomasse, specie nel breve e medio periodo, sono destinatei è poi un altro aspetto che contribuisce a rendere le biomasse meno interessanti di altri processi: la relativa bassa concentrazione di energia per unità di volume dei prodotti così ottenuti. La legna, ad esempio, ha un contenuto di energia, a parità di peso, pari a un quarto di quello contenuto nel petrolio greggio. Ciò costringe a realizzare depositi di materiali (cataste di legna, silos per lo stoccaggio di massa verde, depositi per balle di paglie secche) di notevole dimensione e di grande impatto sul territorio, oltre naturalmente ad accrescere i costi di gestione. Evidentemente altre risorse, tra cui il solare e l’eolico, sono destinate a giocare un ruolo molto ad avere un ruolo e naturalmente a influenzare in misura più o meno marcata l’agricoltura dei Paesi interessati. I rendimenti energetici e la qualità dell’energia prodotta Quando si coltivano piante espressamente per la produzione di energia ci si deve porre comunque una domanda: sino a che punto queste produzioni sono convenienti? Perché se in campo alimentare l’agricoltura non ha concorrenti (l’industria, almeno sino a oggi, non si può sostituire al sistema agricolo nella produzione di alimenti), in campo no food (sia per la produzione di fibre sia in campo energetico) il sistema agricolo si trova a competere con altri settori (civile e industriale), i quali potrebbero attuare processi più convenienti e quindi meno costosi. Un parametro molto importante per valutare la convenienza di un processo per la produzione di energia in generale, e quindi anche da biomasse, è il bilancio energetico del processo. Uno dei parametri impiegati per valutare il rendimento energetico di un qualsiasi processo di produzione di energia è l’Eroei (Energy Return on Energy Investment) ossia il rapporto fra l’energia prodotta e quella consumata per produrla. In tabella 3 sono riportati i valori dell’Eroei di alcuni processi energetici. L’impiego di biomasse non è certo tra quelli che forniscono i rendimenti più elevati. Se si vuole valutare l’efficienza di un processo produttivo agricolo nella produzione di energia bisogna procedere al Lca (Life Cycle Analysis, ossia analisi del ciclo di vita). L’energia consumata, infatti, non è soltanto il gasolio impiegato per le lavorazioni da parte delle macchine operatrici o dei trattori, ma anche l’energia che è stata impiegata per costruire le macchine stesse, negli stabilimenti industriali dove questi mezzi sono stati prodotti e nelle fabbriche da dove sono pervenute le materie prime. La macchina è un bene durevole che non esaurisce subito, immediatamente, la propria capacità produttiva. Bisogna quindi procedere a una sorta di ammortamento energetico. Un altro problema difficile da risolvere è la valutazione del contenuto energetico di fattori come fertilizzanti, fitofarmaci e sementi. Per esempio il contenuto di energia per la produzione dei concimi chimici di sintesi è molto alto, sicché processi produttivi che si basano su un forte apporto di concimi chimici azotati (es. urea) hanno un bilancio energetico che può essere addirittura passivo, ossia con un consumo di energia più alto di quello che si ritrova nella biomassa. Naturalmente nella valutazione della convenienza di un processo, oltre al rendimento energetico puro e semplice, è importante considerare anche la qualità dell’energia prodotta. A questo proposito una cosa è l’energia sotto forma di gas metano, etanolo, biodiesel o elettricità e un’altra è il calore a bassa temperatura, che potrà essere impiegato quasi esclusivamente per riscaldare. In genere vi è una correlazione negativa fra rendimenti energetici e qualità dell’energia prodotta. Le biomasse impiegate per produrre calore (per combustione come succede con i materiali ligneo cellulosici) hanno rendimenti più elevati (Eroei di 8-9), ma producono energia di bassa qualità (calore). Quando il calore è trasformato in altre forme di energia (elettrica per esempio) i rendimenti sono assai limitati (Eroei di 1,5-2). Purtroppo molti di questi processi agroindustriali per la produzione di bioenergia presentano bilanci con rendimenti limitati o addirittura negativi, come nel caso dei biocarburanti: biodiesel e bioetanolo. Questo fatto, tuttavia, non implica necessariamente che un dato processo per i bassi rendimenti energetici sia da scartare, poiché vi possono essere vantaggi dovuti al basso impatto ambientale delle sostanze che derivano dalla combustione di questi materiali. E’ il caso dei biocarburanti (biodiesel e bioetanolo), che pur avendo bilanci energetici in pareggio o addirittura negativi permettono di limitare l’emissione di sostanze tossiche come i prodotti aromatici (benzene) e il particolato (polveri sottili) al momento della combustione. Sostanze queste altamente inquinanti che invece sono emesse dai motori alimentati a benzina e a gasolio. Agricoltura e biomasse Nell’ambito del grande capitolo delle bioenergie, va fatta una netta distinzione fra le biomasse cosiddette residuali, ossia quelle che originano da processi agricoli, industriali e civili di trasformazione e di utilizzazione degli alimenti e della sostanza organica in genere (reflui zootecnici, cascami delle industrie alimentari, sottoprodotti della lavorazione del legno, frazione organica dei rifiuti solidi urbani) e le biomasse dedicate, ossia quelle prodotte appositamente in ambito agricolo, in alternativa a quelle alimentari o d’altro uso, per scopi eminentemente energetici (colture da legno, piante erbacee da fibra, colture oleaginose e amidacee, foraggiere). Mentre i trattamenti riservati alle prime hanno una duplice finalità, energetica e ambientale insieme, le seconde sono prodotte principalmente per scopi energetici. Nell’ambito delle biomasse dedicate si possono distinguere i diversi processi in tre categorie fondamentali: - colture ligno-cellulosiche per la produzione di massa vegetale secca da destinare alle centrali termoelettriche; - colture oleaginose e amidacee per la produzione di biocombustibili (biodiesel e bioetanolo); - colture foraggiere per la produzione di biogas (figura 1). Nulla da eccepire quindi sul fatto che l’agricoltura possa dedicare una parte delle sue risorse alla produzione di biomasse. Tuttavia, quando l’obiettivo non è la produzione di biomassa alimentare ma bioenergia, i termini della questione cambiano e certe impostazioni di tipo gestionale, che possono andare bene per produzioni alimentari, contrastano fortemente con l’esigenza di massimizzare i rendimenti energetici. Se vi è una cosa che non può essere accettata è pretendere di ricavare energia a condizioni vantaggiose da un sistema, come quello agricolo, basato sullo spreco energetico. Il sistema agricolo attuale, come gran parte dei sistemi produttivi presenti nei Paesi più industrializzati, basa la propria efficienza economica sulla disponibilità di energia a basso prezzo, che impiega in misura sempre più elevata per ridurre il fabbisogno di lavoro. L’agricoltura nel suo processo di ammodernamento, attraverso la meccanizzazione delle attività produttive, l’impiego di fertilizzanti chimici e di fitofarmaci, l’uso di sementi e razze animali migliorate geneticamente, ha via via sostituito quote di lavoro (umano e animale) con quote di energia. Ciò ha permesso di ridurre notevolmente la quantità di lavoro per unità di prodotto, aumentando di conseguenza la disponibilità di beni alimentari, ma ha allo stesso tempo impiegato in misura massiccia energia fossile, riducendo il rendimento di questo importante fattore di produzione. Fin che il prezzo del petrolio era di 10 dollari il barile la cosa ha funzionato benissimo, anzi è stato questo, insieme ad altri fattori, il motore che ha determinato lo sviluppo economico nei Paesi oggi più progrediti. Quando però, ultimamente, nel giro di pochi anni, il petrolio è passato da 10 a 70 dollari il barile la situazione si è complicata enormemente. I sistemi produttivi basati sullo spreco energetico hanno cominciato a dare segni di sofferenza e tutto il sistema economico è in una situazione di grave difficoltà. Le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica e da biomasse) sono molto più costose di quelle fossili. Quindi se si intende sostituire, anche per ragioni ambientali, i combustibili fossili con fonti energetiche rinnovabili, si dovrà fare i conti con risorse energetiche sempre più costose. Pertanto i sistemi attuali di produzione dovranno essere rivisti alla luce di questa novità rappresentata dalle fonti alternative e rinnovabili di energia che hanno costi di produzione di gran lunga superiori a quelli degli attuali combustibili fossili. Quindi da sistemi basati sullo spreco energetico dovremo passare a sistemi in grado di impiegare in maniera molto più parsimoniosa l’energia, aumentando i rendimenti energetici dei processi produttivi a scapito di altri fattori, tra cui anche il lavoro. Questo per l’agricoltura significa tornare a modelli organizzativi di 30-40 anni fa. In pratica, per fare un esempio molto vicino a noi, significa passare dall’attuale monocoltura di mais (sistema caratterizzato da alte rese per ettaro e per unità di lavoro, ma scarso rendimento energetico) al prato permanente (con rese più basse ma con un alto rendimento energetico per le più limitate lavorazioni richieste). Ma come mai il prato richiede poche lavorazioni? La risposta è semplice, ma molto ricca di spunti. Il prato richiede poche lavorazioni perché molto alta è la biomassa presente nel terreno (pedo-biomassa). Questo alto quantitativo di energia contribuisce a rendere più soffice il terreno stesso (si sa che l’humus ha una funzione ammendante), a ridurre le perdite di elementi minerali (il prato ha una valenza ambientale notevolissima), a migliorare la nutrizione minerale delle colture, a evitare la stanchezza del terreno, a tenere a freno i parassiti ecc. Sicché poi anche il quantitativo di fertilizzanti, di fitofarmaci, di diserbanti è molto basso o assente e quindi il dispendio in termini energetici risulta assai limitato. I consumi energetici di alcune colture per la produzione di bioenergia sono riportati nel grafico 1. Energia dai reflui zootecnici? La possibilità di ricavare energia dai reflui zootecnici è un aspetto che merita un approfondimento. Fin che si tratta di allevamenti senza terra o con poco terreno a disposizione, la cosa può anche avere un senso, in quanto il refluo oltre che una risorsa in grado di fornire energia è un materiale inquinante che bisogna cercare di smaltire nella maniera meno dannosa possibile. Il problema è diverso quando invece ci si trova di fronte a reflui (di origine bovina prevalentemente) prodotti in aziende in cui vi sono ampie superfici di terreno a disposizione. In questi casi, siamo proprio sicuri che la maniera migliore di utilizzare le deiezioni animali sia quella energetica, ossia il trattamento anaerobico per la produzione di biogas? Quest’energia, in forma di biomassa, non sarebbe meglio impiegarla per la fertilizzazione dei terreni, se è vero il quadro che abbiamo prima dipinto a proposito delle pedo-biomasse? Ritengo sia facile dimostrare che proprio dal punto di vista energetico i maggiori rendimenti dell’energia contenuta nei reflui si ottengano quando questi materiali sono impiegati, magari insieme ad altri sottoprodotti aziendali (paglie, stocchi ecc.), nella fertilizzazione dei terreni. Il trattamento anaerobico per la produzione di biogas produce effluenti quasi completamente privi di energia e con alcuni composti chimici (ammoniaca) assai facilmente eliminabili nell’ambiente, con tutte le conseguenze negative note. I rendimenti energetici diminuiscono man mano che l’energia si trasforma da una forma all’altra. Quindi pensare di ricavare energia elettrica dai reflui zootecnici con un rendimento del 25% per poi dover impiegare energia fossile sottoforma di fertilizzanti e di carburanti per le lavorazioni è pura follia. La prassi piuttosto diffusa di utilizzare i reflui zootecnici per la produzione di biogas se analizzata in profondità non sta in piedi, anzi è un totale fallimento. Spesso viene attuata non per ragioni di efficienza del processo, ma per motivi di carattere normativo. L’impiego come materia prima delle deiezioni animali classifica l’impianto come agricolo e permette lo smaltimento per via agronomica dei reflui senza particolari limitazioni. Cosa che invece non è consentita quando si opera su rifiuti industriali o di altra provenienza. Tuttavia, ai fini del processo di produzione del biogas, il refluo è un pessimo materiale, con poca energia da fornire perché ormai esausto e fra l’altro con problemi di stabilizzazione soprattutto per la componente azotata. Il fatto che si dica che il trattamento anaerobico all’interno dei digestori permette di stabilizzare il refluo zootecnico, in modo da abbatterne gli odori e ridurre le emissioni di ammoniaca al momento dell’impiego, è una grossa bugia, che di solito viene raccontata da chi è interessato al processo di produzione del biogas ma non ha alcuna preoccupazione di tipo ambientale. Si può comprendere bene il concetto se si parte da un presupposto molto importante, ossia dal fatto che il digestore di un impianto a biogas null’altro è che un enorme rumine in grado di digerire esattamente quello che può digerire il rumine di una vacca. Sicché pensare di introdurre in un digestore anaerobico ciò che è già passato per il rumine di una vacca è pura follia. Ma la questione più preoccupante è lo smaltimento del nuovo refluo che fuoriesce da questi impianti. In genere questi materiali vengono sottoposti a una separazione liquido solido che produce da una parte un materiale solido (fango con un alto contenuto in elementi minerali) e dall’altra un liquame con un alto contenuto in ammoniaca. Il primo è un composto quasi inerte che se interrato ha un bassissimo rendimento in humus e che di conseguenza non fornisce al terreno alcun tipo di vantaggio. Contiene metalli pesanti che possono ridurre la fertilità dei suoli oltre che mettere a repentaglio la salute dei cittadini. Il liquame ha un bassissimo rapporto C/N per l’alto contenuto in ammoniaca, sicché risulta essere molto instabile, con la possibilità che al momento dell’applicazione al terreno una quota notevole di ammoniaca venga dispersa nell’ambiente, con molte conseguenze negative (piogge acide, eutrofizzazione degli ecosistemi naturali, inquinamento delle falde ecc.). Questo materiale potrebbe essere sottoposto a trattamenti alternati di aerobiosi e anaerobiosi, rispettivamente in presenza e in assenza di ossigeno, per indurre nella massa prima il processo di nitrificazione e poi quello di denitrificazione. Questo trattamento consente di liberare azoto in forma elementare senza causare i danni che invece derivano dalle emissioni di ammoniaca. Tuttavia questo processo per avvenire ha bisogno di energia, altrimenti i batteri nitrificanti, ma soprattutto quelli denitrificanti, non lavorano. Si deve aggiungere alla massa materiale ricco di carbonio facilmente fermentescibile, ma questo riduce il rendimento del processo e fa aumentare i costi di produzione del biogas. Biogas da colture dedicate e non Quando invece si parte da biomasse prodotte ad hoc il discorso è diverso. I materiali cedono l’energia in più che hanno accumulato, ma ne possono conservare a sufficienza per le trasformazioni successive. Il liquame ha un minor contenuto in azoto e di conseguenza è più stabile e meno soggetto alle perdite di ammoniaca. Non esiste il problema dei metalli pesanti. Ciò non esclude che si possano aggiungere alla biomassa delle produzioni agricole dedicate (mais, sorgo, loietto e altri) anche sottoprodotti di altra provenienza (siero di latte, sangue, prodotti alimentari scaduti, frazione organica della raccolta differenziata, buccette di pomodoro, melasse, borlande di birra ecc.) per aumentare il rendimento dell’impianto e ridurre i costi di produzione del biogas. In questi casi però è necessario prestare molta attenzione ai reflui che si originano a valle dell’impianto (per i motivi già illustrati e soprattutto per quello che concerne la stabilizzazione della componente azotata). L’impiego di biomasse umide da colture dedicate per la produzione di biogas è già oggi possibile a condizioni economiche vantaggiose. Naturalmente è necessario che questi impianti abbiano una certa dimensione per poter ridurre i costi di produzione dell’energia elettrica. Il digestore anaerobico però non si aggiunge, ma si sostituisce alla stalla, creando uno sbocco alternativo a quello zootecnico per colture come quelle foraggiere che altrimenti non avrebbero mercato. Dal punto di vista ambientale e paesaggistico potrebbe essere interessante una politica in grado di sviluppare contemporaneamente sia processi per la produzione di biomasse Fer sia la compatibilità ambientale di essi. Per esempio, in molte aree della pianura padana si potrebbe pensare di reintrodurre i prati permanenti e di destinare il foraggio che si ottiene da queste coltivazioni alla produzione di biogas. Il minor quantitativo di sostanza secca che si ottiene da queste colture, soprattutto se confrontate con il mais o il sorgo, potrebbe essere compensato da contributi che in sede regionale sono versati per le Bpa (Buone Pratiche Agronomiche), previste dalle nuove disposizioni in materia di politica agraria. Senza contare poi il maggior rendimento in termini energetici che processi di questo tipo potrebbero consentire in virtù dei limitati input richiesti. Naturalmente i rendimenti energetici degli impianti a biogas e la loro redditività economica possono aumentare sensibilmente se oltre alle colture dedicate si impiegano materie prime residuali di provenienza extra agricola, come prodotti alimentari scaduti, sottoprodotti della macellazione, buccette di pomodoro e altro ancora. Si tratta di materiali che oltre ad avere un’alta resa in biogas costano poco o addirittura comportano un introito di denaro da parte del trasformatore. In questi casi però è importante stabilire il tipo di materiale che può essere lavorato nei singoli impianti, ma soprattutto è necessario definire le modalità di utilizzazione dei reflui (del digestato) sia solidi sia liquidi che si originano da impianti che operano con questo tipo di materia prima. Se la gestione di questi impianti è fatta male, il danno ambientale che ne consegue è di gran lunga superiore ai vantaggi connessi alla produzione di bioenergia. È necessario soprattutto diffidare degli impianti che sotto l’etichetta di agricoli - perché realizzati in ambito rurale per il trattamento di reflui zootecnici - in realtà trasformano tutta una serie di altri prodotti di scarto che con l’agricoltura hanno ben poco da spartire. Il problema in questi casi è poi lo smaltimento del digerito, le cui caratteristiche potrebbero contrastare con l’esigenza di fertilizzazione dei terreni. Una cosa è il trattamento di questi materiali in un impianto municipale, dove affluiscono altri prodotti e dove è possibile realizzare un compostaggio mirato e controllato, un’altra cosa è lo smaltimento agricolo di questi prodotti senza particolari cautele e trattamenti. Vanno prese tutte le misure per evitare nella maniera più assoluta che il business delle bioenergie trasformi l’agricoltura in una sorta di grande pattumiera in cui scaricare senza nessun controllo i reflui che si originano dai processi di produzione e trasformazione dell’energia. Ciò avrebbe conseguenze deleterie, oltre che sull’ambiente agrario, anche sulla salute stessa dei cittadini. (di Ermes Frazzi - Docente di Costruzioni rurali e territorio - Facoltà di Agraria - Università S.C. - Piacenza) Note (1) Mtep: Mega (milioni) tonnellate equivalenti di petrolio, è una unità di misura dell’energia espressa in termini di petrolio. Ciò permette di confrontare le diverse forme di energia utilizzando la stessa unità di misura.


Phytomagazine.com

venerdì 31 marzo 2006


 
News

Nuova protesta degli agricoltori a Bruxelles, 250 trattori intorno alle sedi Ue. Roghi davanti all’Eurocamera: polizia usa idranti e lacrimogeni.
Circa 250 trattori hanno bloccano le strade principali del quartiere delle istituzioni Ue a Bruxelles chiamati a manifestare da Fugea, dalla Federazione dei Giovani Agricoltori (FJA), dalla Federazione Vallone dell’Agricoltura ( Fwa), dalla Rete di sostegno all’agricoltura contadina (RéSAP) e dal Coordinamento europeo. >>



Gates e Zuckerberg puntano sull'agricoltura: "Cibo vero solo per ricchi"
Altro che carne sintetica e dieta vegetale. I grandi imprenditori dei Big Data sembrano andare proprio nella direzione opposta. Mentre, infatti, la sostenibilità planetaria spinge le economie a orientarsi verso la produzione di cibo sintetico, loro investono su terreni agricoli e sulla produzione di carne tradizionale di altissima qualità. E naturalmente altissimi costi e ricavi. >>



FPP2 GRATIS, ANNUNCIO DI BIDEN, COSA ASPETTA DRAGHI?
Il presidente USA Biden, raccogliendo la richiesta che da tempo avanza Bernie Sanders, ha annunciato che gli Stati Uniti forniranno mascherine ffp2 gratis ai cittadini. >>