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Nella tendopoli di San Ferdinando, la zona rossa che fa paura.

I braccianti positivi al Covid non sono stati più controllati e gli altri protestano. "Una bomba sociale" dicono i sindacati. REGGIO CALABRIA - C’è chi stende panni appena lavati sulla recinzione semi divelta, chi seduto a terra guarda nel vuoto, chi cammina avanti e indietro come un leone in gabbia, come un prigioniero. Nella tendopoli di San Ferdinando diventata zona rossa, i braccianti africani che da anni lì sono condannati ad abitare, sono sagome indistinte, che vedi da lontano. L’intera area è presidiata dalle forze dell’ordine. Al campo, non ci si avvicina. Per motivi sanitari, certo. Ma anche perché la situazione è tesa. Per due volte, contro la polizia ci sono stati lanci di sassi, lattine vuote, cibo andato a male. Dopo la scoperta di quattordici casi di positività al Covid 19 su circa 260 abitanti, l’intero insediamento è stato dichiarato zona rossa, chiunque ci viva obbligato a non lasciarlo. A rimanere bloccato in un recinto in cui non c’è null’altro che tende.

Le due più nuove si distinguono per il colore. Blu acceso, con il logo bianco del ministero dell’Interno ancora non scolorito da anni di intemperie. Sono state montate in fretta e furia per “isolare” i positivi, ma non distano che pochi passi da quelle che da anni ormai stanno in piedi per rispondere “temporaneamente” alla necessità di un tetto per i braccianti che lavorano nella Piana. I bagni invece sono per tutti gli stessi. Un presidio medico fisso non c’è, dell’assistenza sanitaria si occupa la Croce Rossa, ma nel campo ci entra solo in caso di necessità. Fortunatamente, i 14 positivi al Covid 19 sono tutti asintomatici. Se il contagio si sia esteso però non si sa. Al momento, lo screening previsto è stato sospeso. “Perché i malati non sono stati ricoverati altrove? Vogliono che ci infettiamo tutti quanti?” dice Baba, al telefono da dentro il campo. “Se noi non siamo stati contagiati, perché non possiamo andare a lavorare? Non potrebbero darci un certificato di tampone negativo per permetterci di uscire?”. Domande rimaste senza risposta, rimpallate di tenda in tenda, oggetto di riunioni la sera e diventate concime per la protesta, degenerata in più di una sassaiola, quasi sempre poco prima dell'alba. E' il momento in cui ci si alza per andare nei campi. Una giornata a schiena curva per quattro spicci, lontani anni luce dal minimo sindacale. Ma se c'è la polizia a sbarrare l’uscita perché il campo è zona rossa, non è possibile neanche quello. Più di una volta ci sono volute ore di mediazione prima di far tornare la calma. “Questa è la logica conseguenza di un approccio parziale, emergenziale, miope, a stento caritatevole ad un problema politico e sociale strutturale che nessuno ha voluto affrontare.

La protesta Di fronte alla tendopoli sono rimasti quelli del gabbiotto d’ingresso, pezzi di recinzione, pietre. In tutta l’area c’è un silenzio quasi irreale. Dietro le griglie di ferro che circondano le tende blu ministeriale, si aspetta. Che i dieci giorni di quarantena passino. Che qualcuno porti derrate alimentari. Che i malati guariscano e nessuno si aggravi. O che qualche padroncino dei tanti che tempestano i braccianti di chiamate, incurante della quarantena e del pericolo di potenziale diffusione dell’epidemia, dia loro una buona ragione per scavalcare la recinzione e allontanarsi prima dell’alba. “Non mi interessa che mi portino del cibo, devo mandare i soldi a casa” dicono in molti, mentre su whatsup si rincorrono i vademecum di sindacati e associazioni per proteggersi dal contagio e i messaggi vocali dei caporali, secondo cui il Covid 19 è “malattia dei bianchi” e le zone rosse “un modo per chiedere ulteriori finanziamenti all’Unione Europea”. Fuori dal recinto, anche le forze dell’ordine aspettano. “Ma lo sappiamo anche noi che questa è una pentola a pressione che può esplodere da un momento all’altro” dice uno degli operatori. Il campo dei container A distanza di dieci chilometri, anche al campo container, nei pressi di Rosarno, si aspetta. Quasi dieci anni fa, era una “struttura temporanea” pensata per dare un tetto ai braccianti rimasti senza casa dopo la rivolta del 2010. I gestori sono andati via, la struttura è rimasta. È qui che è stato individuato il primo cluster di braccianti positivi. Venti su 120 abitanti, chiusi in zona rossa dieci giorni fa. Ma – fa sapere il dipartimento di Prevenzione dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, che mai come in queste settimane ha registrato un exploit di contagi sul territorio- “l’attività di screening prevista sui soggetti presenti nell’area interessata, non è stata ad oggi completata”. Traduzione, non si sa se ci siano altri positivi e quanti. Per questo la quarantena è stata prolungata di ulteriori dieci giorni. Una notizia incassata, almeno per il momento, senza malumori e rivolte. Magari, anche perché in molti hanno lasciato il campo appena la zona rossa è stata dichiarata. Altri, approfittano di un'area impossibile da controllare completamente per andare comunque a lavorare nei campi e tornare la sera a quella che per molti da anni è “casa”. A viverci è una comunità di braccianti per lo più stanziale, ma che formalmente è in larga parte fatta di fantasmi. Pochissimi hanno un contratto regolare. “Appena possibile, chi può cerca di spostarsi in un appartamento ma nonostante ci siano 10mila case sfitte nella Piana non è semplice superare certe resistenze” spiegano dallo Sportello Soumaila Sacko di Usb, che da anni – e ancor di più durante il lockdown –ha chiesto a Regione e Prefettura un fondo di garanzia per rassicurare i locatari e permettere ai braccianti di uscire da tendopoli e ghetti. Richieste rimaste lettera morta. “C’erano i tempi e i modi per evitare di trovarsi adesso in questa situazione – dice Giorgia Campo – quella che è mancata è la volontà politica”. Così come è mancata la determinazione ad aggredire fino in fondo le anomalie di un settore in cui il lavoro nero o grigio è la regola e non l’eccezione. “La regolarizzazione prevista nel decreto Rilancio si è rivelata un fallimento. Nonostante i braccianti lavorino a tempo pieno nei campi, pochissimi sono stati in grado di presentare sufficienti giornate agricole o contratti per accedervi – denuncia Ruggero Marra di Usb - Stessa cosa vale per il reddito di emergenza”. Come adesso per le indennità di malattia. Chi ha un lavoro regolare ed è in quarantena può richiederla e insieme ai volontari di Medu e di Mediterranean Hope, i sindacalisti stanno assistendo i braccianti in questi passaggi burocratici. Ma sono pochissimi a poterlo fare. I requisiti minimi sono un contratto regolare e almeno 51 giornate di lavoro dimostrabili. Fantascienza in una zona in cui lavoratori con le mani deformate dai calli hanno a disposizione buste paga addirittura con saldo negativo.

Il sindacato: una bomba sociale e sanitaria “Si sta innescando una bomba sociale e sanitaria – spiegano dal sindacato - La stagione degli agrumi non è neanche iniziata e già ci sono due insediamenti zona rossa. Nessun monitoraggio è stato fatto, né è possibile fare sugli insediamenti informali”. Mediterranean Hope ne trova di nuovi ogni giorno. Casolari e vecchi ruderi dove i braccianti cercano riparo. Aumenteranno, dicono l’esperienza e i numeri. Ogni anno nella Piana arrivano dai mille ai duemila lavoratori senza i quali – è diventato evidente durante il lockdown - la filiera agricola si ferma. Oggi nella provincia di Reggio Calabria, i contagi sono molti di più e i braccianti di meno, ma non c’è giorno senza che alla stazione di Rosarno o Gioia Tauro non arrivino nuovi lavoratori, che si presentano puntuali per l’inizio della stagione. E come ogni anno, non c’è nessuna strategia per permettere loro di avere un alloggio degno, né per obbligare le aziende a fare a tutti contratti regolari. Ma adesso c'è anche una pandemia a complicare il quadro, con una seconda ondata che morde anche il Sud, sostanzialmente risparmiato dalla prima ondata. Come allora però mancano pianificazione e prevenzione. Reddito di quarantena per chi è in zona rossa, una strategia per superare ghetti e tendopoli, controlli sulle condizioni di lavoro, coinvolgimento di Asp, aziende e autorità locali nel monitoraggio sanitario di chi è impiegato in agricoltura. Le richieste di associazioni e sindacati son queste e sono comuni. Ma al momento, non c’è nessuno che le ascolti. (di Alessia Candito)
www.repubblica.it

mercoledì 28 ottobre 2020


 
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