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Troppo elevato l’impatto della carne sul clima: una riduzione è necessaria. L’intervento di Mario Tredici su Georgofili.info

Si parla spesso della necessità di ridurre il consumo di carne, sia per la nostra salute che, soprattuto, per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e contrastare il cambiamento climatico, a cui il settore zootecnico contribuisce in maniera importante. Di questo parla Mario R. Tredici, professore del Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari, ambientali e forestali dell’Università degli Studi di Firenze nella in un articolo in due parti pubblicato originariamente da Georgofili.info. Ecco la prima parte dell’intervento.

Non ho dubbi sul ruolo fondamentale (alimentare, nutrizionale, economico e sociale) della carne e dei prodotti di origine animale. L’allevamento, oltre a fornire nutrienti essenziali, garantisce lavoro e sicurezza alimentare a buona parte dell’umanità, in molti casi migliora la qualità della vita e a volte la rende semplicemente possibile. Quindi, lungi da me l’idea di proporre l’abbandono della carne. Invito che non sortirebbe comunque alcun effetto. Tuttavia mi è altrettanto chiaro che una decisa limitazione della produzione e del consumo di carne non è più procrastinabile. Non possiamo evitare la catastrofe climatica (il punto di non ritorno) che incombe se, assieme a drastiche misure in altri settori che divorano risorse non rinnovabili ed emettono gas serra, non riduciamo in modo importante il consumo di alimenti di origine animale e di carne in particolare. Non entro nel merito delle condizioni in cui sono tenuti gli animali in alcuni allevamenti intensivi (purtroppo numerosi anche in Italia) e nemmeno dei maggiori rischi di malattie non trasmissibili associati a un eccessivo consumo di carne e salumi. L’agricoltura è tra le prime cause del cambiamento climatico e ne subisce pesantemente gli impatti sia a livello locale che globale. Se contro ogni previsione riusciremo a limitare il riscaldamento globale entro i 2°C, la resa di molte colture base tra cui grano, mais e soia, che in alcune aree della fascia settentrionale del mondo andrà ad aumentare, diminuirà comunque in generale del 20-40%. D’altra parte l’agricoltura è responsabile d’ingenti danni ambientali: emissioni di gas serra, erosione di suolo fertile, deforestazione e desertificazione, inquinamento delle acque e dell’aria, perdita di biodiversità, eutrofizzazione e morte di vaste aree marine costiere. Il contributo maggiore a questi impatti negativi lo danno gli allevamenti animali, di ruminanti in particolare.

La produzione mondiale di carne (escluse pesca e acquacoltura) ha sfiorato 340 milioni di tonnellate nel 2018 (FAO Outlook, 2018) ed è previsto che la richiesta mondiale di prodotti di origine animale superi 600 milioni di tonnellate nei prossimi due/tre decenni. Di fronte a questo trend, le domande da porsi sono tante. Quali strategie adotterà il settore zootecnico per sostenere tale richiesta? Cosa comporterà in termini di costi ambientali? Come incrementare la produttività degli allevamenti già fortemente limitata a causa delle mutate condizioni climatiche? Un terzo delle terre emerse (circa 5,1 miliardi di ettari di cosiddetta agricultural land) è già sfruttato dall’agricoltura. Di questa “terra agricola”, oltre 3,5 miliardi di ettari sono destinati a pascoli e prati permanenti mentre le colture occupano i rimanenti 1,6 miliardi di ettari (l’arable land). A sua volta un terzo della “terra arabile” è coltivato per produrre mangimi. In totale quindi, dei 5,1 miliardi di ettari di terra agricola, ben 4 miliardi di ettari sono utilizzati per ottenere prodotti di origine animale. Nonostante l’allevamento si appropri, direttamente o indirettamente, del 78% della terra agricola, fornisce solo il 17% delle calorie alimentari ed il 33% delle proteine a livello globale. Lo spazio per estendere ulteriormente gli allevamenti non c’è, salvo che si voglia continuare con la sciagurata politica di deforestazione che ha caratterizzato gli ultimi anni e in particolare quello in corso. La sola possibilità di aumentare la produzione di alimenti di origine animale è quindi intensificare la produzione e aumentare le rese per unità di superficie impegnata. Questa scelta si scontra con le inefficienze proprie del sistema di produzione degli alimenti di origine animale. Un metro quadro di suolo investito a mais o soia fornisce annualmente circa 100 grammi di proteina. Per i prodotti di origine animale, al di là dalle enormi differenze legate alle diverse forme di allevamento e condizioni climatiche che rendono difficili valutazioni di carattere generale, le analisi disponibili indicano che, in media, un metro quadro di suolo può produrre annualmente 13 grammi di proteina con polli da carne, 8 grammi se vi alleviamo suini, mentre se ne ricava un solo grammo quando destinato ad allevamenti di bovini da carne. La resa proteica dell’unità di suolo si riduce quindi di circa 100 volte passando da mais o soia alla carne bovina. Secondo l’approfondita e già citata analisi di Berners-Lee ed al. (2018), in termini di calorie giornaliere disponibili per persona le colture agrarie producono a livello mondiale poco meno di 6.000 (5.935) kcal per giorno e ne restituiscono sotto forma edibile (dopo le varie perdite in campo e trasformazioni in prodotti non alimentari) 4.260 kcal (di cui 1.738 kcal sotto forma di mangimi), con una resa del 72%. Gli allevamenti consumano direttamente biomassa vegetale (pascoli, foraggi) per 3.812 kcal ed altre 1.738 kcal come mangimi per un totale di 5.550 kcal /persona/giorno. Di queste ne restituiscono circa 600 kcal (con una resa dell’11%). Per le proteine la situazione migliora: gli allevamenti restituiscono in forma edibile 38 grammi di proteina per persona per giorno dei 140 grammi di cui si appropriano sia direttamente dai pascoli (51 grammi) che dai mangimi (89 grammi) con un’efficienza di trasferimento del 27%. Non è da trascurare che le proteine e i nutrienti ottenuti da pascoli e foraggi non sarebbero disponibili per l’uomo (se non tramite complesse trasformazioni) se non fosse per gli animali allevati che compiono un importante upgrade di questa biomassa primaria. Rimane che il 40% delle calorie e il 60% delle proteine ottenuti dalle colture vengono deviate all’alimentazione degli animali allevati che in massima parte le degradano a rifiuti o prodotti di minore valore. Il problema è alla base: la bassa efficienza di conversione del cibo tipica degli animali terrestri. L’efficienza di conversione del mangime in peso edibile, che è di circa il 40% nei pesci, scende infatti al 20-25% nel pollame, al 10% nei suini, per crollare al 3-4% nei bovini.

L’agricoltura consuma il 70% dell’acqua dolce disponibile sulla terra. Produrre un chilogrammo di proteina da legumi richiede circa 20 metri cubi di acqua dolce, mentre ce ne vogliono più di 30 metri cubi per ottenere un chilogrammo di proteina da pollame, circa 60 metri cubi da suini e oltre 110 metri cubi da bovini. Fonti alternative come le micoproteine e le microalghe ridurrebbero le richieste a qualche metro cubo per chilogrammo di proteina (si veda la tabella impatti). Quanto ai gas serra, di cui oggi più si dibatte, convengo che il contributo dell’agricoltura alle emissioni di CO2 non sia preponderante rispetto a quello di altri settori. Dal 2007 al 2016 le emissioni da AFOLU (acronimo di Agriculture, Forestry and Other Land Uses) che comprende le emissioni da attività agricole, silvicolturali e dal mutamento di destinazione del suolo, sono state in media di 5,2 gigatonnellate CO2/anno ed hanno contribuito alle emissioni antropiche di CO2 per circa il 13%. Tuttavia quando alle emissioni di CO2 si sommano quelle di metano (4,5 Gt CO2 equivalenti/anno) e quelle di protossido di azoto (2,3 Gt CO2equivalenti/anno) il contributo dell’AFOLU sale a 12 Gt CO2-equivalenti/anno su un totale di 52 Gt CO2-equivalenti/anno, pari al 23% di tutte le emissioni antropiche (IPCC Special Report 2019). Nello stesso periodo il solo allevamento ha causato emissioni per 7.5 Gt CO2-equivalenti/anno, oltre il 60% dell’AFOLU e pari al 14,5% del totale delle emissioni antropiche. Ben 3,3 Gt di CO2-equivalenti/anno provengono da fermentazione enterica e stoccaggio di reflui e liquami negli allevamenti di bovini e bufali. Suini, ovini, caprini e pollame assieme hanno contribuito per 0,8 Gt CO2-equivalenti/anno. La produzione di mangimi, il trasporto e la preparazione dei prodotti alimentari di origine animale hanno pesato per 3,6 Gt CO2-equivalenti/anno; l’acquacoltura e la pesca per circa 0,6 Gt CO2-equivalenti/anno (non contate nelle emissioni da allevamenti). Dare un aggettivo (poco o tanto) al contributo dell’agricoltura alle emissioni climalteranti dipende dai punti di vista e serve a poco. Il numero rimane lì: vale un quarto delle emissioni antropiche totali, cioè quanto l’industria, e il 40% in più del settore trasporti. (di Mario R. Tredici)
https://ilfattoalimentare.it/

sabato 28 dicembre 2019


 
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