IL PIANETA USA E GETTA.
Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica
Sintesi del report “Throwing away the future: how companies still have it wrong on
plastic pollution ‘solutions’”.
L’inquinamento da plastica è una delle minacce ambientali più gravi dei nostri tempi. Lo
confermano le immagini di spiagge e fondali marini sommersi dai rifiuti, quelle di grandi cetacei
spiaggiati con grandi quantità di plastica nello stomaco e i sempre più frequenti ritrovamenti di
tartarughe e uccelli marini soffocati dalla plastica.
L’inquinamento da plastica è una delle minacce ambientali più gravi dei nostri tempi. Lo
confermano le immagini di spiagge e fondali marini sommersi dai rifiuti, quelle di grandi cetacei
spiaggiati con grandi quantità di plastica nello stomaco e i sempre più frequenti ritrovamenti di
tartarughe e uccelli marini soffocati dalla plastica.
Ma questa è solo la parte visibile del problema: le microplastiche, frammenti inferiori ai 5
millimetri, sono state ritrovate, non solo in mare, ma anche nelle acque dolci, nei suoli e nell’aria
che respiriamo. Il 99 per cento della plastica deriva da fonti fossili come il petrolio, la cui
estrazione e raffinazione è strettamente collegata al cambiamento climatico e all’inquinamento
atmosferico. Gli impatti della produzione di plastica sul clima sono rilevanti: le stime indicano
che nel solo 2019, a livello mondiale, la produzione e l’incenerimento di rifiuti in plastica
raggiungerà un livello di emissioni di anidride carbonica pari a quello di 189 centrali elettriche a
carbone.
Nonostante le conoscenze scientifiche crescenti riguardo i danni irreversibili che l'inquinamento
da plastica può provocare, si prevede che la produzione di questo materiale aumenti nei prossimi
decenni, con l’usa e getta a rappresentarne la frazione preponderante. L’industria delle fonti
fossili sta iniziando a reindirizzare i propri investimenti nella produzione di plastica che, secondo
le stime, aumenterà del 40 per cento nei prossimi dieci anni, arrivando ad essere responsabile
del 20 per cento del consumo mondiale di petrolio. Di fronte a tale scenario numerose persone
in tutto il mondo si stanno attivando nella direzione giusta, ricorrendo a quelle soluzioni che le
grandi aziende, che producono i più grandi volumi di plastica monouso, non offrono: rifiutano
la plastica usa e getta in favore dello sfuso o dell’impiego di contenitori riutilizzabili.
In risposta a questa spinta della società civile alcune tra le più grandi multinazionali hanno
riconosciuto la necessità di dover intervenire ma gran parte delle soluzioni proposte finora, oltre
a non essere efficaci per fronteggiare l’emergenza, non prevedono di abbandonare l’usa e getta
perpetuando il loro modello di business. Nonostante il packaging in plastica rappresenti circa il
40 per cento di tutta la plastica prodotta nel mondo e costituisca una delle fonti principali di
rifiuti in plastica dispersi nell’ambiente, nessuna delle grandi multinazionali come Nestlé, PepsiCo
e Coca Cola si è impegnata a ridurre la produzione di packaging monouso, investendo in sistemi
di consegna basati sullo sfuso e sulla ricarica. Sono anzi numerose le false soluzioni proposte:
La carta
Molte aziende (come McDonald’s e Nestlè) stanno cercando di ridurre l’uso di plastica sostituendo
parte degli imballaggi con packaging in carta. Questo cambiamento è spesso pubblicizzato come
positivo perché la carta è in genere percepita come una materiale più sostenibile della plastica
dal punto di vista ambientale, ma si tratta di una “soluzione” altrettanto problematica. La carta
deriva infatti dal legno e le foreste, ecosistemi ad elevata biodiversità, sono fondamentali nella
lotta al cambiamento climatico. Per tale motivo qualsiasi aumento nella richiesta di carta
aumenterà i rischi non solo per le foreste ma anche per il clima. Altre criticità sono legate al
sistema del riciclo della carta che non è in grado di fornire, su scala globale, una quantità e
qualità di fibre tali da far fronte all’aumento della domanda di packaging in carta.
Le “bioplastiche”
Alcune aziende stanno sostituendo parte della plastica monouso derivante da fonti fossili con
plastica a base di materie prime rinnovabili (per esempio mais e canna da zucchero), spesso
promossa come biodegradabile e compostabile. Gran parte delle tecnologie attualmente
disponibili non consentono di produrre packaging interamente in materiale rinnovabile, spesso
quindi confezioni e imballaggi in bioplastica sono realizzati solo in parte con materiali rinnovabili.
Un esempio è la bottiglia NaturALL, che sarà adottata in alcune nazioni da Danone e Nestlé,
promossa come “bio” ma costituita per il 70 per cento da plastica tradizionale. È bene quindi
diffidare da termini come “eco”, “bio” o “green”, il più delle volte utili solo per il marketing,
considerando anche che:
-La maggior parte della plastica a base biologica proviene da colture agricole che, oltre a
competere con la produzione di alimenti, cambiano l'uso del suolo e aumentano le emissioni
inquinanti derivanti dall’agricoltura (che è la principale causa di deforestazione e distruzione
degli habitat naturali e responsabile di un quarto delle emissioni di gas serra);
- Il ricorso al termine biodegradabile è spesso fuorviante per i consumatori: questi prodotti non
si decompongono se dispersi nell’ambiente o gettati in discarica ma solo in determinate
condizioni di temperatura e umidità, raramente presenti in natura. In pratica, se dispersi
nell’ambiente possono dar luogo agli stessi problemi dei prodotti in plastica tradizionale;
- La plastica compostabile è progettata per decomporsi del tutto solo in condizioni tipiche degli
impianti di compostaggio industriali o, più raramente, in sistemi di compostaggio domestico. Non
in tutto il mondo sono presenti questi impianti e, se ci sono, comunque non sono in grado di
gestire grandi quantità di rifiuti. Di conseguenza queste plastiche spesso finiscono per essere
smaltite in discarica o negli inceneritori esattamente come le plastiche monouso convenzionali.
Il riciclo
Le multinazionali hanno a lungo promosso il riciclo come soluzione principale al problema
dell’inquinamento da plastica, ma più del 90 per cento di tutta la plastica prodotta a partire dagli
anni Cinquanta non è mai stata riciclata. I sistemi di riciclo attuali non sono in grado di recuperare
una quantità di materiale tale da ridurre la domanda di plastica vergine e di assicurare un
adeguato smaltimento della crescente quantità di rifiuti prodotti. A livello europeo solo il 31 per
cento dei rifiuti in plastica raccolti nel 2016 sono stati effettivamente riciclati. Per alcune plastiche
realmente riciclabili come il Polietilene tereftalato (PET) e il Polietilene ad alta intensità (HDPE) i
tassi di riciclo sono ancora spaventosamente bassi: solo la metà del PET venduto viene raccolto
per essere riciclato, e solo il 7 per cento delle bottiglie raccolte per il riciclo sono trasformate in
nuove bottiglie. Gran parte del packaging in plastica è soggetto a “downcycling”: invece di essere
utilizzato per nuovi imballaggi in plastica riciclata, viene riprocessato per prodotti di qualità
inferiore non riciclabili. Inoltre, negli ultimi anni è cresciuta la quantità di packaging composto
da diversi materiali (poliaccoppiati) difficili, se non impossibili, da riciclare. Se consideriamo poi
che produrre plastica vergine spesso costa meno rispetto a quella riciclata, è facile rendersi conto
che, anche se delle tipologie di plastiche sono tecnicamente riciclabili, non significa che saranno
riciclate perché trovano difficile collocazione sul mercato. Pertanto, il riciclo può essere solo una
soluzione parziale e di transizione verso una graduale eliminazione del packaging.
Il riciclo chimico
L’impegno di 37 multinazionali ad aumentare la quantità di plastica riciclata nei loro imballaggi
farà crescere la domanda di plastica riciclata di 5-7,5 milioni di tonnellate (aumento del 200-300
per cento) entro il 2030. È tuttavia difficile che tale impegno si concretizzi considerando gli
evidenti limiti del sistema di riciclo, incluso quello chimico che si sta affiancando recentemente
al riciclo meccanico. Con riciclo chimico si intendono diverse tecnologie (ad esempio
gassificazione e pirolisi) finalizzate a riciclare la plastica minimizzando il rischio di downcycling.
Alcune di queste tecnologie sono state già usate in passato come alternative all’incenerimento,
ma sono state subito abbandonate per i costi e le emissioni inquinanti, mentre altre opzioni non
sono state mai completamente sviluppate. La conoscenza degli impatti ambientali e sanitari di
queste tecnologie è ancora limitata e ci sono serie preoccupazioni riguardo le sostanze chimiche
pericolose (principalmente solventi) utilizzate per “purificare” la plastica, l’uso intensivo di
energia e la necessità di costruire infrastrutture costose per realizzare gli impianti. Nonostante
le preoccupazioni menzionate e il fatto che il riciclo chimico non è ancora tecnicamente ed
economicamente fattibile, le grandi multinazionali promuovono queste tecnologie nei loro
progetti di responsabilità sociale d’impresa, mentre compagnie petrolchimiche cominciano ad
investire in start-up di riciclo chimico in parte finanziate dalle multinazionali degli alimenti e delle
bevande.
Conclusioni
La crisi globale dell’inquinamento da plastica è la diretta conseguenza di un sistema di riciclo
inaffidabile su scala globale, e le soluzioni alternative proposte dalle grandi aziende sono
tutt’altro che risolutive per affrontare concretamente l’emergenza. È evidente che altre soluzioni
esistano e la loro adozione potrebbe generare benefici concreti per le persone e per il Pianeta.
In generale è necessario che, proprio chi immette sul mercato globale le più grandi quantità di
plastica usa e getta, ovvero le grandi multinazionali, riduca subito la produzione di plastica
monouso investendo in soluzioni alternative basate sul riutilizzo e sulla ricarica che non
prevedano il ricorso ad altri imballaggi usa e getta, indipendentemente dal tipo di materiale.
Nello specifico le grandi aziende degli alimenti e delle bevande devono dare priorità alla
riduzione, impegnandosi pubblicamente ed immediatamente ad eliminare la plastica monouso,
partendo dalle tipologie di packaging superflue e più problematiche per il riciclo, riducendo il
numero di imballaggi e contenitori in plastica immessi sul mercato; investire in sistemi di
consegna alternativi basati sullo sfuso e sulla ricarica; essere trasparenti divulgando
pubblicamente i dati sulla produzione di plastica monouso, includendo il numero di pezzi,
composizione e peso degli imballaggi in plastica.
Greenpeace
giovedì 31 ottobre 2019
|