Il piano segreto di Bolsonaro per distruggere l’Amazzonia.
Brasile. Svelato un audio del «progetto Barão de Rio Branco» che prevede la costruzione di dighe,
autostrade e ponti, lo sfruttamento minerario, l’occupazione di terreni coltivabili e l’insediamento di
popolazioni non indigene. Obiettivo dell’operazione: riaffermare la sovranità sulla regione
È stato un altro duro colpo all’immagine del governo Bolsonaro la sua esclusione dalla lista dei
relatori al vertice sul clima che si terrà lunedì a New York. «Il Brasile non ha presentato alcun piano
con iniziative per migliorare il suo impegno» per l’ambiente, ha spiegato Luis Alfonso de Alba,
inviato speciale del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres per l’organizzazione dell’evento.
Un piano in realtà il Brasile ce l’ha eccome, ma non certo nella direzione auspicata da Guterres. Si
tratta del progetto Barão de Rio Branco, presentato dal governo già a febbraio in diverse riunioni
con autorità politiche e imprenditori, ma ora salito alla ribalta internazionale grazie all’accesso del
sito The Intercept a documenti inediti e alla registrazione di uno di questi incontri. Un progetto che
si propone lo sviluppo o meglio la distruzione dell’Amazzonia «improduttiva» attraverso la
costruzione di dighe, autostrade e ponti, lo sfruttamento minerario, l’occupazione di terreni
coltivabili e l’insediamento di popolazioni non indigene provenienti da altre regioni del paese,
oscurando così persino il famigerato programma di colonizzazione condotto dalla dittatura militare
sotto lo slogan «Occupare per non cedere» e costato la vita a più di 8mila indigeni.
SE L’OBIETTIVO del progetto è quello di condurre l’Amazzonia a contribuire addirittura per la metà
al Pil nazionale rispetto all’attuale contributo dell’8,6% -, l’idea che lo muove è legata alla stessa
vecchia ossessione della dittatura, sposata in pieno da Bolsonaro: la paura che il Brasile perda il
controllo della regione, attraverso per esempio una fantomatica invasione di cinesi dalla frontiera
del Suriname, dove sono presenti forti investimenti da parte della Cina. È proprio questo il timore
del generale Maynard Santa Rosa, segretario speciale degli Affari strategici, come emerge da un
audio registrato durante una riunione svoltasi il 25 aprile nella sede della Federazione
dell’Agricultura del Pará: «Nella frontiera occidentale della Siberia ci sono più cinesi che cosacchi.
La Russia sta affrontando un problema molto serio di sicurezza nazionale. Dobbiamo svegliarci
prima che accada anche qui».
MA I CINESI NON SONO l’unica minaccia alla sovranità brasiliana sull’Amazzonia. Un pericolo non
meno grave viene infatti dalla «campagna globalista» condotta attraverso le ong, la chiesa, gli
ambientalisti, i quilombolas e soprattutto gli indigeni. I quali vengono persino accusati un altro
antico timore dei militari di puntare alla creazione di nuovi stati su base etnica, a cominciare da una
nazione Yanomami che unificherebbe aree indigene brasiliane e venezuelane.
Un’ossessione, quella della perdita di sovranità, che si è riaccesa in seguito alle attuali polemiche
sull’aumento della deforestazione e degli incendi (che tuttora proseguono, malgrado la minore
attenzione della stampa) sotto il governo Bolsonaro, con tanto di invocazione da parte del presidente
Macron di uno «status internazionale» per l’Amazzonia.
PER SCONGIURARE tali pericoli, a cui oggi si aggiunge anche il temuto Sinodo dell’Amazzonia che
si aprirà il 6 ottobre in Vaticano, non ci sarebbe allora che una strada: integrare «nel sistema
produttivo nazionale» quella che secondo Santa Rosa sarebbe «una regione improduttiva e
desertica», attraverso grandi progetti infrastrutturali e un nuovo popolamento. Santa Rosa lo diceva
già nel 2013: «Il maggior problema geopolitico dell’Amazzonia è il vuoto di popolazione». E ancora:
«Creare riserve indigene nella fascia di frontiera è un crimine di lesa patria».
Il programma Barão do Rio Branco prevede allora tre grandi opere, tutte nella regione di frontiera
del Pará, la più preservata dello stato: una centrale idroelettrica in Oriximiná, sul fiume Trombetas,
destinata a rifornire la zona franca di Manaus, un ponte sul Rio Amazonas nella città di Óbidos e
l’estensione dell’autostrada BR-163 (costruita negli anni ’70 durante la dittatura) fino al Suriname. E
a farne le spese sarebbero 27 terre indigene e aree protette della fascia di frontiera, a cominciare
dalla terra Wajãpi, in Amapá, dove a luglio è stato ucciso dai garimpeiros (i cercatori illegali d’oro e
diamanti) il leader comunitario di 68 anni Emyra Waiãpi. Il progetto, hanno denunciato le
organizzazioni indigene, «avrà un impatto distruttivo irreversibile su di noi e sul nostro stile di vita
basato sull’uso sostenibile delle risorse naturali, a cui si deve la sopravvivenza di una delle aree di
maggiore preservazione ambientale del pianeta».
Quanto ai tempi di esecuzione, il piano, secondo la Segreteria degli Affari strategici, «si trova ancora
in fase di discussione e di maturazione», in attesa di un decreto che costituisca un gruppo di lavoro
interministeriale incaricato dell’elaborazione del programma. (di Claudia Fanti)
Il Manifesto
domenica 22 settembre 2019
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