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Perché le terre rare sono il nuovo petrolio (e la Cina ha già conquistato il mondo)

SI chiamano lantanoidi e sono quindici elementi chimici senza i quali nessuno smartphone, auto elettrica, turbina eolica potrebbe funzionare. L’80% di queste materie è in mano alla Cina, che le vende in cambio di know how. Dimenticate i big data: il grande gioco dell’economia mondiale parte da qui. Questa è la storia di 70 elementi, 15 (cosiddette) terre rare, 7 miliardi e mezzo di telefoni accesi, 50 milioni di tonnellate di rifiuti e di un Paese, la Cina, che da solo controlla buona parte di questa gigantesca economia degli elementi. Questa è la storia di un mondo convinto di essersi emancipato dalla materia attraverso il digitale e che invece, mai come ora, si sta legando mani e piedi a chi controlla il ciclo delle materie prime, dall’estrazione alla lavorazione sino allo smaltimento. Questa è soprattutto la storia di un pianeta in cui si crede che il potere sia nelle mani di chi possiede i dati dell’utente finale, da Google a Facebook, mentre il realtà il pallino è ancora una volta, nei secoli dei secoli, nelle mani di chi controlla le materie prime.

Partiamo da loro, dai materiali. Lantanio, terio, prasedonio, neodimio, europio, gadolinio, disprosio. No, non stiamo parlando di nulla di alieno, o preso in prestito da un romanzo di fantascienza. Si chiamano lantanoidi e li trovate sulla tavola periodica degli elementi di Mendeleev nel blocco F, il penultimo in basso, staccati da tutti gli altri. Se pensate che la loro posizione, là in fondo, sia sinonimo di scarsa importanza, vi sbagliate di grosso. Questi quindici elementi, per la loro particolare luminescenza e per il loro essere superconduttori di energia, sono infatti il vero cuore pulsante dell’economia digitale, quelli senza i quali non ci sarebbero né gli smartphone né la rivoluzione digitale che hanno generato. Qualche esempio? Senza l’indio non ci sarebbe il touch screen, senza ittrio, disprio, europio, gadolino, lantanio e terbio gli schermi non sarebbero colorati. Senza il neodimio e il gadolio non ci sarebbero i microfoni per parlare e mandarsi le note vocali, senza disprosio, presedomio e terbio non ci sarebbe alcuna vibrazione. Sono quelle che i media e la vulgata hanno ribattezzato terre rare, sebbene non siano né terre, né tantomeno rare. Per dire, il cerio è il ventiseiesimo elemento più abbondante nella crosta terrestre, il neodimio è più abbondante dell'oro e persino il tulio, il lantanoide meno comune in natura, è più abbondante dello iodio. Il problema semmai, è che questi materiali, come suggerisce l’etimologia del nome (lanthanein, dal greco “restare nascosto”) si trovano dentro ammassi rocciosi di bastnasite e monazite e sono molto difficili da separare dal resto, date le loro proprietà chimiche e fisiche molto simili. Problema tra i problemi: estrarli è molto costoso, perché è inusuale trovarli in concentrazioni così alte da giustificare un’estrazione economica. Non solo, estrazione e lavorazione delle terre rare sono molto inquinanti: parliamo di centinaia di galloni di acqua salata inquinata al minuto, dell’uso di materiali tossici per il processo di raffinazione e di scorie radioattive come scarto di lavorazione.

Non è storia recente, quella dei lantanoidi. Sono stati scoperti a Ytterby vicino a Stoccolma, in Svezia, nel 1787. Poiché le loro proprietà fisiche e chimiche erano molto simili, erano difficili da separare. Per questo dopo la loro scoperta rimasero chiuse in laboratorio per anni. Ce ne sono voluti novanta prima che venissero usati per scopi commerciali. Nel 1884 le Terre Rare furono usate per la prima volta per fabbricare i mantelli a incandescenza per l'industria dell'illuminazione a gas. Il secondo uso commerciale di terre rare è avvenuto nel 1903, quando il metallo di Misch è stato utilizzato per fabbricare le selci che vanno negli accendini. Nel 1911 le terre rare furono aggiunte al vetro per colorarlo. Negli anni 30 la Kodak le usò aumentare l’indice di rifrazione dei suoi obiettivi. E nel secondo dopoguerra furono i lantanoidi a permettere alle televisioni di trasmettere a colori, il neodimio a far volare i missili intercontinentali, il samario a far funzionare i reattori nucleari. A cambiare le regole del gioco, a fare dei lantanoidi il cuore dell’innovazione tecnologica, ci ha pensato, manco a dirlo, Deng Xiaoping: «Il Medio Oriente ha il petrolio, ma in Cina ci sono le terre rare», affermò in un discorso al Poltiburo del Partito Comunista Cinese nel 1992, quasi un lascito testamentario a Jiang Zemin e a chi sarebbe venuto dopo ancora. Merito di Xu Guanxian, padre dell’industria delle terre rare in Cina e delle migliaia di scienziati del Baotou Research Institute, grazie al quale oggi la Cina possiede tutto il know how sull’estrazione, sulla lavorazione e sull’impiego di questi materiali. Da quel momento la Repubblica Popolare ha iniziato a inondare il mercato di terre rare super economiche, estratte in miniere locali con scarsissime misure di sicurezza e ad altissimo costo ambientale, contro le quali nessun altra miniera del mondo è stata in grado di competere, prima fra tutte quella di Mountain Pass negli Stati Uniti, principale bacino d’estrazione prima di allora. Come risultato, la Cina oggi copre l’80,4% di tutta l’offerta di terre rare del mondo, buona parte delle quali nella gigantesca miniera di Bayan Obo, nella provincia della Mongolia Interna, una specie di inferno in terra visibile via satellite, circondato da un bacino artificiale tra i più inquinati al mondo. Un dato su tutti: nel solo 2017, la Cina ha estratto 105.000 tonnellate di metalli delle terre rare, mentre negli Stati Uniti hanno prodotto solo 43.000 tonnellate negli ultimi 20 anni. Non è finita qui, però. Perché è attraverso questo monopolio di fatto sui materiali che la Cina ha costruito, pazientemente ma nemmeno troppo, la sua forza nel mercato dell’economia digitale, prima coi computer, poi con gli smartphone. Già, perché la Repubblica Popolare non aspirava semplicemente a essere il fornitore di materie prime, in questo grande gioco. L’anno chiave è il 2010, due anni dopo la nascita del primo Iphone, quando la Repubblica Popolare ha deciso di tagliare del 72% anno su anno le proprie esportazioni di lantanoidi, ufficialmente per ragioni di sostenibilità ambientale. In realtà, attraverso l’offerta di materie prime a basso costo, la Repubblica Popolare ha imposto alle imprese produttrici di smartphone e prodotti elettronici di insediare le proprie fabbriche in Cina, in joint venture con un socio cinese. E una volta assorbito il know how, ha cominciato a produrre smartphone a un costo molto inferiore a quello di Apple e Samsung. Missione compiuta: Huawei è oggi il secondo produttore di smartphone al mondo dopo Samsung e davanti ad Apple, e investe oltre il 10% del suo fatturato annuo in ricerca e sviluppo, settore in cui impiega circa il 45% dei dipendenti. Altro che minatori. Il futuro, ancora di più, dipende dai lantanoidi. Uno di essi in particolare, il neodimio, sta diventando una specie di pietra filosofale del ventunesimo secolo. Come ha raccontato alla Cnbc Roderick Eggert, vice direttore del Critical Materials Institute presso la Colorado School of Mines, «Il neodimio è responsabile per buona parte della crescita della domanda di terre rare al momento». Grazie al neodimio, combinato con boro e ferro, si può realizzare un magnete potentissimo, ancorché fisicamente piccolissimo. Un magnete che agli smartphone serve per vibrare, agli auricolari senza fili per trasmettere il suono, alle turbine eoliche per generare energia, ai motori delle auto elettriche per funzionare. Parliamo di un mercato che già due anni fa valeva 11,3 miliardi di dollari. Immaginate quanto varrà quando ci saranno milioni di veicoli elettrici in circolazione. Immaginate se la Cina userà il suo potere di estrattore per produrre motori di auto elettriche e turbine eoliche, così come ha fatto con gli smartphone.

Il futuro, ancora di più, dipende dai lantanoidi. Uno di essi in particolare, il neodimio, sta diventando una specie di pietra filosofale del ventunesimo secolo. Fin qui, tuttavia, sarebbe solo una disfida geo-economica, la storia di come l’Occidente si è giocato la sua primazia nell’economia globale, nell’erronea convinzione che lasciare ai cinesi l’estrazione dei lantanoidi fosse una semplice riallocazione su scala globale dei processi produttivi e non invece la prima tessera a cadere di un gigantesco effetto domino. C’è anche un enorme problema di sostenibilità ambientale. Parliamo - sono dati del Global E Waste monitor delle Nazioni Unite, edizione 2017 - di 50 milioni di tonnellate di e-waste, pari all’1,25% di tutti i rifiuti del mondo. Problema numero uno: il 65% dell’e-waste non è riciclato. Problema numero due: siamo dipendenti dalla Cina anche nello smaltimento dei rifiuti tecnologici, che se ne prende in carico il 70% circa. Problema numero 3: solo l’un per cento dei lantanoidi viene riciclato, aumentando di anno in anno, il predominio cinese sui materiali. E, di conseguenza, su tutta la catena del valore di questo immenso mercato. Immenso, già. Perché il problema numero 4 è che siamo solo all’inizio. Al mondo ci sono oggi 7,5 miliardi di schede telefoniche attive, più delle persone: in Cina la media è di 3 smartphone a testa, in Italia ci fermiamo a 1,4 pro capite, bambini e anziani inclusi. È un mercato in crescita costante: ogni anno viene prodotto più di un miliardo di smartphone e vengono spesi circa 370 miliardi per acquistarli. Solo la Apple, a dieci anni dal lancio, ha venduto 1,2 miliardi di iPhone. Cosa succederà quando oltre agli smartphone anche le automobili a guida autonoma saranno maggioranza nelle nostre strade, i robot domestici in ciascuna abitazione e le fabbriche intelligenti e completamente robotizzate non più un’eccezione? Se non devieremo dalla traiettoria attuale, saremo governati, ancora di più, da chi possiede i materiali. E avremo un grosso problema con la loro reperibilità e il loro smaltimento. Più scarsi diventano, più diventa costoso estrarli, più il potere della Cina aumenta: “Poiché i metalli delle terre rare diventano sempre più scarsi e la Cina stringe la presa sull'industria mineraria, i produttori e i consumatori di tecnologia devono ripensare a come commercializzano e consumano tecnologia - aveva avvertito Askar Sheibani, ceo della Comtek, in un suo intervento sul Guardian del 2014 -. Come consumatori, dobbiamo rompere l'abitudine di aggiornamento e mantenere i dispositivi più a lungo, considerando la riparazione prima della sostituzione. E non dobbiamo dimenticare che quando la tecnologia arriverà alla fine del suo ciclo di vita, dovrà essere smaltita in modo sicuro ed etico». Forse dobbiamo cominciare a pensarci su.
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domenica 14 luglio 2019


 
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