SOS letami, l’inquinamento da deiezioni animali è fuori controllo: a rischio acque, terra e clima. Una conseguenza dimenticata del consumo di carne.
Tra le cause più importanti e meno note del cambiamento climatico ce n’è una a cui è urgente porre rimedio: quella delle deiezioni degli animali da allevamento, che stanno avvelenando le acque, la terra e l’atmosfera. A lanciare l’allarme è il Guardian, che riassume la situazione: secondo le ultime stime, se non ci saranno cambiamenti immediati, nel 2030 la quantità di letami prodotti raggiungerà la stratosferica cifra di 5 miliardi di tonnellate annuali, che non sarà possibile gestire come si dovrebbe. Già oggi non si riesce: per esempio, l’80% degli allevamenti olandesi (i Paesi Bassi sono i primi produttori di carni a livello europeo) non riescono a riutilizzare tutte le deiezioni che producono, e la Cina ha deciso di iniziare ad agire sopraffatta dalla quantità di liquami prodotti.
Che la situazione stia andando fuori controllo lo dicono, per esempio, i 424 incidenti registrati tra il 2010 e il 2016 nella sola Gran Bretagna, che oggi produce 36 milioni di tonnellate di letami all’anno, nonostante i controlli siano stati da tempo intensificati. Gli allevatori, preoccupati anche dalla Brexit e dal possibile calo del prezzo del latte, spesso non rispettano le procedure di smaltimento, che sono costose, e questo causa sempre più spesso incidenti e contaminazioni ambientali. E lo dicono anche molti studi: di fatto, tutte le volte che si va a verificare, i risultati sono preoccupanti.
Quanto all’inquinamento prodotto, bisogna tenere conto di ciò che viene rilasciato in atmosfera, come ammoniaca, ossido nitroso e solfuro d’idrogeno, già associati a molte patologie respiratorie, immunitarie e psichiatriche, per non parlare del metano, che è il più potente gas serra esistente (80 volte peggiore della CO2 nel trattenere il calore) e i cui effetti si protraggono per almeno 10-20 anni. Secondo diversi studi, il metano associato allo spettacolare aumento del consumo di proteine animali sarebbe la prima causa dell’inquinamento in Cina, con un raddoppio delle emissioni tra il 1980 e il 2010.
Ma a essere in pericolo sono anche i terreni e le acque, che sempre entro il 2030 potrebbero ricevere ogni anno 100 milioni di tonnellate di fosforo, 30 di potassio e 18 di calcio. Un mix micidiale per l’eutrofizzazione, che porterebbe all’aumento esponenziale delle zone cosiddette di “mare morto”, dove cioè il livello di ossigeno è così basso da non permettere praticamente nessuna forma di vita. Oggi ce ne sono più di 500 nel mondo, alcune delle quali, come quelle del Golfo del Messico e del Golfo del Bengala, estese per migliaia di km quadrati.
Inoltre, oggi più della metà delle acque cinesi sono inquinate, e molte comunità rurali stanno pagando un prezzo altissimo, per esempio con il ritorno del colera, presente insieme ad altre malattie zoonotiche in tutti i paesi poveri e a reddito medio dove aumenta la richiesta di carne.
Nei paesi più ricchi quelle infezioni circolano di meno, ma poiché i batteri sono sempre più resistenti agli antibiotici, quelle presenti, spesso di tipo gastroenterico, possono essere fatali. Inoltre si teme che qualche microrganismo presente nei grandi allevamenti – come le Salmonelle, i virus delle influenze e delle epatiti – possa mutare, uscire dai serbatoi animali e diventare incontenibile.
Le soluzioni sono complesse, anche perché richiedono processi industriali che non tutti i Paesi si possono permettere. Di certo sarebbe utile se il metano prodotto non fosse disperso ma utilizzato come fonte di calore ed energia, e se i liquami fossero trattati con batteri in grado di digerirli. Ma secondo molti autorevoli commentatori i governi non hanno ancora preso sul serio la questione e definito piani di indirizzo a medio termine, nonostante le Nazioni Unite abbiano segnalato l’urgenza per la prima volta nel 2006, e da allora ci siano stati molti disperati appelli a una gestione più intelligente delle deiezioni animali. La quale, tra l’altro, potrebbe rivelarsi parecchio redditizia, una volta a regime, per esempio attraverso la vendita di energia.
Infine, bisognerebbe mettere in campo la risposta più efficace: diminuire il consumo di proteine animali e, di conseguenza, la necessità di allevamenti intensivi di produttori di deiezioni. (di Agnese Codignola)
https://ilfattoalimentare.it
domenica 14 aprile 2019
|