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L’ambulatorio a Milano che cura migranti e senza dimora.

Via dei Transiti è una strada stretta nel quartiere Loreto, che collega viale Monza con via Padova, simile a molte altre della periferia est di Milano. Qui, al numero 28, nel 1994 è stato aperto l’Ambulatorio medico popolare, un centro autogestito che fornisce servizi essenziali a chi rimane fuori dal sistema sanitario nazionale: i senza dimora, per esempio, o gli stranieri senza permesso di soggiorno. Più volte minacciato di sgombero, l’Ambulatorio in questi anni ha curato gratuitamente più di cinquemila persone. Ospitato nei locali del centro sociale T28 – occupato dal 1975 – si presenta con un’insegna rossa dove “Ambulatorio Medico Popolare” è scritto in lingue diverse. Dentro ci sono una sala d’attesa e lo studio medico, dove i dottori – volontari, come gli infermieri e chi lavora all’accoglienza – visitano i pazienti. “Questo era un locale abbandonato del centro sociale, usato per fare le riunioni”, spiega Liliana, un’insegnante che ha contribuito a fondare il centro e che si occupa dell’accoglienza, “poi quando abbiamo deciso di aprire l’ambulatorio lo abbiamo ristrutturato, mettendo a norma i locali”.

Oggi l’Ambulatorio medico popolare riceve tra le venti e le trenta persone al giorno, organizza campagne di informazione e sensibilizzazione sul diritto alla salute e gestisce un consultorio. Chi ci lavora lo fa gratuitamente, mentre i farmaci arrivano da donazioni. Luca, un infermiere originario di Como che fa volontariato all’ambulatorio da più di otto anni, spiega che gestire questo posto è un gesto politico: “Non siamo volontari nel senso classico del termine”. L’obiettivo è tutelare la salute dei pazienti, ma anche spingerli a una presa di coscienza sui loro diritti: “Vogliamo che la nostra autogestione sia un esempio per chi viene qui, in modo da spingerlo a fare qualcosa, a chiedere i diritti che gli spettano, e non solo a risolvere il suo piccolo problema”. Sempre più italiani Un lunedì pomeriggio di maggio la piccola sala d’attesa è quasi piena. È il giorno in cui si ricevono i pazienti seguiti da tempo, mentre il giovedì sera è dedicato alle prime visite. Le persone aspettano tranquillamente il loro turno per incontrare il dottore. Molti di loro sono stranieri, ma ci sono anche degli italiani, come una donna che arriva e chiede se è possibile essere inserita nella lista delle visite. Se in passato chi si rivolgeva all’Ambulatorio medico popolare era straniero, oggi le cose stanno cambiando: “Il decreto Lupi sull’emergenza abitativa impedisce di rilasciare la residenza anagrafica a chi è senza casa o la occupa abusivamente. Ma senza residenza non puoi richiedere il medico di base, e in questa situazione si trovano sempre più italiani. Quindi vengono da noi o si rivolgono direttamente agli ospedali”, spiega Liliana. Intanto, in un angolo un volontario fa delle domande ai pazienti: “Chiediamo qual è il loro paese di origine, la loro situazione amministrativa e informazioni sui posti dove vivono”, dice Luca. Non vengono chiesti passaporti o carte d’identità. “Gli unici documenti che chiediamo li chiediamo ai nostri medici, e riguardano l’iscrizione all’albo”, scherza Liliana. Ventiquattro anni di storia Le origini dell’ambulatorio sono ancorate al mondo della sinistra milanese e dei movimenti sociali. Il biennio 1993-1994 è significativo per l’Italia e in particolare per Milano che vede l’elezione del primo (e unico) sindaco leghista Marco Formentini, dopo una campagna elettorale in cui si era scagliato ferocemente contro gli “extracomunitari”. Preoccupati, i movimenti sociali milanesi decidono di reagire: “Nel 1993, dopo una grande assemblea al teatro dell’Elfo, il movimento milanese aveva deciso di far nascere due esperienze: una non è mai partita, l’altra era l’Ambulatorio medico popolare”, ricorda Liliana. Il centro apre nel giugno 1994 e comincia subito a collaborare con il collettivo femminista Ma chi vi ha autorizzato?, che già si riuniva al T28. “Loro lavoravano sul diritto all’interruzione della gravidanza. Ricordo riunioni con le ostetriche che dicevano: ‘Sono disperata, l’ospedale mi dice che la signora romena che vuole abortire deve pagare un milione e seicentomila lire’”, dice Liliana. E così nel 1994 nasce La consultoria. Autogestita da sole donne, si batte per il diritto a una maternità consapevole per le donne straniere. Nel 1995 apre anche Telefono viola, un centralino per le vittime di disagio psichiatrico, che però al momento è sospeso. Quello stesso anno Roberto Formigoni comincia il lungo governo da presidente della regione Lombardia e si comincia a parlare di una riforma sanitaria, poi fatta nel 1997, che introduce i privati nella sanità pubblica lombarda. “Dopo la riforma Formigoni, gli ospedali pubblici sono diventati semplici erogatori di prestazioni, come se fossero aziende”. La Lombardia anticipa quello che sarebbe avvenuto a livello nazionale: il ruolo sempre maggiore dei privati e i soldi dello stato – sempre meno – spesi soprattutto sulla base delle prestazioni eseguite negli ospedali, non con una visione di insieme.

Per cercare di dimostrare che “un’altra sanità è possibile”, i militanti e volontari dell’ambulatorio rivolgono subito la loro attenzione verso gli stranieri, allora completamente dimenticati dal sistema sanitario nazionale. Nel 1994 è ancora in vigore la legge Martelli sull’immigrazione, che non menziona il diritto alla salute per loro. L’unico modo per uno straniero di accedere a un pronto soccorso era “farsi trovare sanguinante in mezzo alla strada ed essere trasportato d’urgenza”, ironizza Liliana. “Questo posto era aperto sei ore al giorno, sei giorni alla settimana, perché gli stranieri non sapevano dove andare. Oltre a noi l’unico posto dove potevano ricevere delle cure era l’ambulatorio dell’associazione di volontariato Naga, dall’altra parte di Milano. Ovviamente, non avevamo i mezzi per curarli tutti perché io qui posso fare una visita, non certo un trapianto di fegato”, prosegue Liliana. Per affrontare questa situazione l’ambulatorio e altre tre associazioni – Caritas, Camminare assieme e Naga – lanciano una proposta di legge di iniziativa popolare per garantire l’accesso alle cure a tutti gli stranieri. Qualche mese dopo, alcuni dei principi che ispiravano il testo finiscono nella legge Turco-Napolitano, voluta dal governo Prodi per regolamentare l’immigrazione in Italia. “Di per sé la legge è pessima, ma con tre articoli scritti bene, i nostri, in cui c’è scritto che lo straniero ha diritto a tutte le cure necessarie, a prescindere dalla condizione giuridica”, ricorda Liliana. È così anche con la legge in vigore ancora oggi, la Bossi-Fini. Sulla carta, il diritto alla salute è garantito a tutti, gli stranieri che soggiornano in maniera regolare hanno l’obbligo di iscriversi al servizio sanitario nazionale, così come i richiedenti asilo e chi ha ricevuto una forma di protezione internazionale. Ma in pratica le cose sono più complicate: secondo Medici senza frontiere, in Italia sono “almeno 10mila le persone escluse dall’accoglienza, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche”. Molti di loro “vivono in luoghi sempre più nascosti, e con contatti sempre più limitati con i servizi territoriali, inclusi quelli sanitari”. Il problema è che tanti – sia tra chi ha fatto richiesta di asilo sia tra chi ha ottenuto una forma di protezione – vivono in stabili occupati e non hanno una residenza anagrafica, condizione necessaria per avere un medico di base e accedere facilmente al resto del sistema sanitario. Lo stesso vale per gli italiani senza fissa dimora e per gli immigrati senza permesso di soggiorno. Questo ha in parte modificato il tipo di servizio che l’ambulatorio offre: da centro per chi non aveva un luogo dove farsi curare, è diventato più simile a un medico di base per chi non ne può avere uno. Con la legge oggi in vigore, gli stranieri senza permesso di soggiorno possono andare in ospedale e ottenere cure urgenti ed essenziali, tramite il codice “straniero temporaneamente presente” (stp). “Ma è capitato di veder arrivare una persona con una fistola sulla mano dimessa dall’ospedale Niguarda con l’indicazione di andare all’Ambulatorio medico popolare”, aggiunge Luca, l’infermiere. Discriminazioni Negli anni l’ambulatorio si è dovuto scontrare più volte con chi non vuole fornire farmaci agli stranieri senza permesso di soggiorno. Come ricorda Liliana: Circa dieci anni fa si sono rivolti a noi Mohammed e Amir, entrambi malati di diabete. Gli abbiamo prescritto delle strisce reattive per controllare la glicemia. L’azienda sanitaria locale non gliele dava e quando sono andata con loro a chiedere spiegazioni la risposta del dirigente della struttura è stata: ‘Ma signora, sono stranieri!’. Abbiamo dovuto fare ricorso al giudice di pace per ottenere una sentenza per cui gli stranieri con codice stp hanno diritto ad accedere ai presidi medicosanitari per il controllo di malattie come la glicemia o il diabete. Poche settimane fa è capitato un caso simile: un magrebino che soffre di diabete, sposato con un’italiana, in sei mesi si è rivolto a tre strutture pubbliche, ma non ha ottenuto assistenza. Solo quando siamo andati insieme e quando ho minacciato di scrivere su internet che gli stavano negando la possibilità di monitorare la sua patologia sono riuscita a ottenere quello che serviva. Ma le discriminazioni colpiscono anche chi ha i documenti in regola. Racconta Luca: “È capitato che a persone con regolare permesso di soggiorno sia stato detto che per avere il medico di base bisogna presentare il contratto di lavoro, che è una cosa assolutamente illegale perché anche una persona che ha perso il lavoro ha diritto all’assistenza sanitaria”. In questi anni è cambiato anche il tipo di persone che si rivolgono all’ambulatorio. Mentre parla, Liliana mi fa vedere uno studio sulle prime cinquecento persone visitate tra il 1994 e il 1996. “Metà veniva dall’Africa e aveva un titolo di studio di scuola superiore, se non la laurea, quasi tutte le altre venivano dall’Europa dell’est ed erano donne e laureate”, dice Liliana, “oggi a emigrare sono i più poveri, molti partono dal Bangladesh e dallo Sri Lanka, e metà di loro è analfabeta”. Nel frattempo, molti di quelli curati negli anni novanta si sono integrati e alcuni sono diventati volontari del centro.

Sotto sfratto L’attività dell’Ambulatorio medico popolare non piace a tutti, anzi. Nel 2004 è cominciata una guerra fatta di carte bollate, avvocati, ufficiali giudiziari e ingiunzioni di sfratto tra Ciro Bigoni, il nuovo proprietario dello stabile, e gli attivisti. Nel 2008 Bigoni ha vinto la causa per sfratto. Più volte annunciato, non è stato però ancora eseguito, anche grazie alla solidarietà di molti milanesi, che sono intervenuti in difesa dell’ambulatorio: “È stato rimandato più volte”, ricorda Liliana, “intanto facevamo le colazioni solidali, ci appellavamo alla solidarietà del quartiere. Infine, nel 2014 abbiamo raggiunto un accordo con la proprietà per pagare un affitto simbolico di 150 euro al mese”. Nonostante queste difficoltà, il centro non ha mai smesso di curare chi aveva bisogno e negli ultimi anni sono nati diversi progetti. Uno di questi è Spampanato: “Ci siamo resi conto che molte persone vengono qui non perché hanno problemi fisici da risolvere. Tanti vengono perché sono angosciati o sono soli. Così Lulù, la psicologa argentina che collabora con noi, ha lanciato questo percorso di sostegno psicologico”, dice Liliana. “Quando abbiamo aperto, pensavamo di chiudere subito dopo aver lanciato una provocazione: mostrare a tutti che esistono sempre più persone alle quali è negato il diritto di cura. Ma con il passare degli anni, la situazione ci sembra peggiorata, l’accesso alle cure non è così scontato e per questo noi ci siamo ancora: chi avrebbe mai detto che saremmo andati avanti per ventiquattro anni?”. (Su richiesta degli attivisti dell’Ambulatorio medico popolare i loro nomi sono stati cambiati.) (di Giorgio Ghiglione, giornalista - 2 luglio 2018)
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venerdì 3 agosto 2018


 
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