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Ex Foro Boario, un bene di Padova. Non solo di Leroy Merlin.

L’opera di Davanzo ha vinto diversi premi e suscitato la curiosità del MoMA di New York. Ora sembra un capannone industriale abbandonato. E pensare che l’architetto Enzo Siviero, dopo aver proposto di farne un centro museale dell’architettura contemporanea, scriveva nel 2008: «ma, ove tutto ciò si rivelasse impraticabile, debbo confessare che, provocatoriamente, pur di salvare l’oggetto, non escluderei a priori l’ipotesi di chiedere a qualche sceicco arabo di “adottare” il monumento, adibendolo a luogo di culto, della pace multietnica e multi religiosa: quasi una testimonianza che l’odio tra le popolazioni non è così diffuso come si pensa». Non c’era l’Isis di oggi, in quel 2008, e l’ex sindaco Bitonci era deputato a Roma e forse non l’ha sentito, altrimenti…

E intanto la “cattedrale” dell’ex foro boario di corso Australia invecchiava derelitta e inutilizzata. Sconosciuta allora come oggi alla città, distrattamente intravista dalla tangenziale alla stregua di un capannone industriale abbandonato, intuizione logistica e commerciale fallita, senza nemmeno la dignità percepita di una memoria, di una utilizzazione. Ma quel 2008 in realtà è l’anno della sua silente resurrezione: viene firmato il vincolo dalla Soprintendenza, autore Guglielmo Monti, e l’edificio di Giuseppe Davanzo viene consacrato: «Elemento di qualificazione attiva ed episodio di altissima emergenza panoramica nell’ambiente urbano circostante, definito in modo totalmente inedito», …«presenza macroscopica esaltante, che prova come sia possibile realizzare “monumenti” che possono tramutarsi in preziose occasioni di qualificazione paesistica e urbana».

Il cuore di architetti, accademici, storici ha sempre battuto per quella costruzione ispirata ad un tendone da circo ma realizzata con moduli prefabbricati, con l’occhio all’architettura soprattutto. Padova dal 1969 ha la sua ziqqurat, la sua piramide, o come scrive l’Iuav in suo dossier, la sua gibigianna, che vuol dire “donna che ostenta charme ed eleganza”. Per il critico Pier Carlo Santini «la reggia delle vacche», poi cattedrale per molti, ma vuota come le chiese nell’eclissi del sacro. Decisamente non è piaciuta agli allevatori di Tombolo. Nonostante lì ci fossero sala di contrattazione, macello, stabulario e quant’altro, l’hanno sempre rifiutata, snobbata e quindi resa inutile. E vagli a spiegare che nel ’66 quell’edificio aveva meritato il premio “per un’idea architettonica”, e nel ’69 quello in/Arch, e che nel 1979 il MoMA di New York ha richiesto la documentazione dell’opera per il suo archivio di Modern Architecture. Sono ancora lì, quei progetti, ad insegnare. A Padova c’è l’originale che pian piano s’è trasformato in un problema. Un bubbone. Un tumore. Peggio, un cadavere impossibile da rianimare. Ci hanno provato varie amministrazioni (Zanonato, Destro) piene di buone intenzioni e risultati zero. E’ stata fatta anche pubblicità, con qualche dépliant, una decina d’anni fa, cercando di coinvolgere idee e investitori, e anche un bando: non è arrivato nessuno. E’ morto Davanzo, è morto Monti, ma quelle che non muoiono sono le idee. Che sono riprese, come si è visto, nel 2008 e poi con nuovo empito nel 2014. Punto di partenza: questa è architettura, e anche urbanistica; non è una scatola da adoperare. Ed ecco la visione del paladino Bepi Contin, architetto: «cambiamo l’approccio, che è ancora berlusconiano. Non si fa tutto per il mercato, esistono cose in perdita economica che sono profitti culturali». Ma i sogni senza denaro… «Leroy Merlin ha capito meglio dei padovani il valore pubblicitario di questo sito. Invece che un centro commerciale, ne faccia la sede della sua multinazionale, la sua bandiera europea, un monumento a se stessa. Non combatto il privato, ma immagino una gestione culturale di quel bene. E poi ci vuole un collegamento al centro storico, la cattedrale non è più lontana dalle piazze di Prato della Valle. La città deve riappropriarsene». Antonio Sarto, altro architetto (Matiteassociate) chiosa questi concetti: «facciamone una questione di metodo: come suggerire a chi decide il modo di non rovinare un progetto. Si dia all’imprenditore privato la chiave di lettura, gli si dica cosa può e non può fare. Non ci deve essere conflitto, ma il pubblico costruisce la resilienza nel tempo. Soprattutto non ci deve essere improvvisazione progettuale, il pacchettino comodo perché è pronto. L’urbanistica è collegiale, partecipata. Se questo è un bene comune deve essere recepito come tale e restare alla città».

I mai^tres à penser predicano da anni, più o meno inascoltati. Poi è arrivato un bando concordato su misura, un paio di commissari iperveloci, un’offerta irrinunciabile soprattutto perché unica. L’eco del “bene comune” viene sovrastata dalla sinfonia dei 32,8 milioni di euro messi dal privato, a cui si aggiunge la musica di Zed. Martina Davanzo, architetto e figlia del progettista, non difende una memoria sentimentale quando dice che l’opera di papà «va salvata dall’arroganza del presente». La reggia delle vacche non lo è più da cinquant’anni. Diventerà la reggia dell’imprenditore privato o della città? Chi sarà il re? Diciamo che Leroy, a giudicare dal nome, parte avvantaggiato.
www.vvox.it

giovedì 30 novembre 2017


 
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