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Gli orrori libici: fosse comuni per i migranti uccisi in viaggio.

Soccorritori avvisati solo per ricomporre le vittime. E l’Ong Moas ferma i salvataggi in mare. Quando negli uffici della Mezzaluna Rossa squilla il telefono non scatta nessuna corsa contro il tempo. Sanno già di cosa si tratta. «Cadaveri da ricomporre, non c’è nessuno da soccorrere». Va avanti così da mesi. Gli operatori sono stati addestrati per salvare vite, ma in Libia è sempre troppo tardi. Alle volte li restituisce il mare, altre vengono scoperti per caso in una buca di sabbia. «Spesso non si riesce neanche a capire se si tratta di migranti uccisi dagli scafisti, di combattenti eliminati nei regolamenti di conti tra bande di paramilitari, oppure entrambi i casi», spiega una fonte locale.

Giorni fa ne hanno tirati fuori 14 da una fossa vicino Bengasi. Alcuni erano neri, altri maghrebini. Legati mani e piedi recavano segni di torture di molto precedenti all’uccisione. Neanche questo aiuta. I miliziani catturati e interrogati vengono trattati come i subsahariani che non hanno soldi o che si ribellano nelle prigioni clandestine degli scafisti. Eliminati per dare l’esempio, oppure perché le loro braccia non sono buone neanche per il mercato interno degli schiavi. Gli uomini dello scaltro generale Haftar giurano di non saperne nulla. Mentre più a Sud, nelle zone desertiche, l’Organizzazione internazionale dei migranti ha dovuto attivare, come in mare, una operazione 'Sar' per la ricerca e il soccorso dei 'desapareci- dos' del Sahara. Alberto Preato, rappresentante dell’Oim in Niger, dice che dopo la momentanea chiusura della rotta marittima verso l’Italia, i trafficanti «stanno esplorando vie terrestri alternative alla Libia». Non è un caso che questo tema sia stato sollevato ieri anche dalle autorità algerine nell’incontro con il ministro Marco Minniti che prima di volare ad Algeri aveva assicurato che «sui diritti e l’accoglienza farò una battaglia personale. Penso che bisogna governare i flussi migratori senza perdere l’umanità». Quanto agli accordi con la Libia il titolare del Viminale ha prima sostenuto che «i sindaci delle città libiche non sono dei capi tribù». Aggiungendo poi che chi «fosse venuto in quella sala e avesse ascoltato quei sindaci – ha precisato ricordando l’incontro per l’intesa con le autorità locali libiche –, non avrebbe pensato di essere a Tripoli». Il governo libico, però, non è di manica larga nella concessione dei visti alla stampa estera e verificare le informazioi, anche quelle ufficiali, è sempre più arduo. «Il patto che abbiamo fatto – ha spiegato Minniti – è semplice: vi liberate dei trafficanti di esseri umani e noi vi aiutiamo a costruire un circuito economico alternativo. Io vorrei far capire ai libici che non possono fare lo Stato carogna». Alcuni arresti eccellenti, in effetti, ci sono stati. A Sabratha, nell’area di influenza del governo riconosciuto di Serraj, e a Bengasi dove detta legge il generale Haftar. I pochi diplomatici presenti a Tripoli invitano però alla cautela. «Tutti gli scafisti – dicono – sono implicati nel traffico di persone, nel contrabbando di petrolio e armi e per convenienza o per appartenenza tribale sostengono questa o quella milizia ».

Sarà una coincidenza, ma fino ad ora i pochi trafficanti bloccati nell’area di Serraj sono tutti fiancheggiatori dell’opposizione al premier. A sua volta gli unici arresti compiuti dal generale Haftar, hanno riguardato la filiera dei suoi nemici giurati. Le colonne di migranti che risalgono il deserto non sanno nulla delle mutevoli tempeste di sabbia nei fortini della politica. Qualche giorno fa i fuoristrada dell’Oim in Niger hanno fatto in tempo a dare da bere a una dozzina di subsahariani che da una settimana non mangiavano e nelle taniche non avevano più neanche un goccio. I passeur li avevano abbandonati nella terra di nessuno al limitare tra Libia, Tunisia e Niger. Gli 'scafisti delle dune' lo hanno capito subito. Morire nel Sahara è più facile, ma risalire ai trafficanti è più difficile. I parenti a casa, inoltre, possono sempre sperare che i propri emigrati siano magari imprigionati in Libia e impossibilitati a contattarli. Così il mercato non si ferma. E a far ritrovare i resti di chi non ce la fa è solo il caso.

Come alla vigilia dell’estate, quando vi furono tre macabri ritrovamenti ravvicinati: i resti di 39 adulti e 5 bambini l’1 giugno; 18 adulti il 14 giugno; 14 adulti e 20 bambini due giorni dopo. Negli ultimi tre mesi i migranti soccorsi nelle paludi di sabbia sono stati 600, mille da aprile, con un incremento nelle ultime settimane. «Altre persone moriranno – preconizza Preato –. I migranti ci dicono che il deserto è un cimitero, molto più esteso del Mediterraneo». (di Nello Scavo inviato a Ras Agedir - Libia)
www.avvenire.it

sabato 9 settembre 2017


 
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