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Rassegna stampa - Trissino (VI) inquinamenti: Non solo Pfas, sottoterra ci sono altri veleni

La situazione dell’inquinamento ambientale è così palese che non servono commenti alle notizie che ci raggiungono, nonostante questo troppi cittadini restano alla finestra invece di organizzare nuovi modelli produttivi e di gestione delle politiche... Poveri ragazzi che debbono andare a lavarsi il sangue!!

22 agosto 2017 – Il Mattino di Padova - Non solo Pfas, sottoterra ci sono altri veleni Trissino: gli scavi nel sito di Miteni rivelano la presenza di solventi al benzene altamente nocivi e di rifiuti solidi interrati. VICENZA. È un pestilenziale vaso di Pandora quello scoperchiato nel sottosuolo di Miteni, la società chimica di Trissino indagata per il massiccio sversamento di Pfas in acque e terreni di una superficie pari a 120 kmq e popolata da 120 mila persone. Le sostanze perfluoroalchiliche - e i loro composti Pfoa e Pfos - hannocontaminato 23 comuni (epicentro nell’Ovest vicentino, diramazioni nella Bassa padovana e nel Veronese) ma non sono gli unici agenti inquinanti nel territorio. I carotaggi dell’Arpav nel sito dello stabilimento di proprietà del gigante International Chemical Investors Group hanno confermato i sospetti avanzati (su base documentale) dai carabinieri del Noe ovvero la presenza di benzene tricloruro, un solvente nocivo che può arrecare seri danni all’apparato respiratorio e nervoso umano, risultando cancerogeno per gli animali. Non è tutto: in questi giorni di pausa industriale, l’accelerazione degli scavi nell’area circostante l’azienda - oggi attraversata da un solco lungo quaranta metri - ha consentito il rinvenimento di uno stock di “big bags”, grandi sacchi di clore blu zeppi di rifiuti solidi. Chi li ha interrati? Miteni, per voce dell’ad Antonio Nardone, ha negato ogni responsabilità in proposito alludendo, indirettamente, agli assetti proprietari che si sono succeduti nei decenni: in origine Rimar, il centro di ricerche e produzioni fluorurate fondato nel 1964 da Giannino Marzotto; poi l’avvento della joint venture tra Mitsubishi ed Eni (Miteni, appunto), quindi la corporation giapponese in solitudine, infine il passaggio alla multinazionale che ne detiene il controllo attuale attraverso una consociata, Weylchem. «La dimensione reale dell’inquinamento non è stata ancora definita e le prospettive sono a dir poco allarmanti», è il commento di Manuel Brusco, il consigliere regionale del M5S a capo di un gruppo di lavoro composto da amministratori ed esperti che ha già fornito materiali informativi al Noe e alla Procura di Vicenza. «I filtri apposti dalla sanità agli acquedotti hanno fronteggiato gli effetti della malattia, senza però aggredire le cause. È evidente ormai che Miteni sorge sopra una vera e propria discarica di veleni, capace di inquinare le falde, con conseguenze in parte imprevedibili. Troviamo vergognoso lo scaricabarile di responsabilità tra Governo e Regione e ci opponiamo all’ipotesi di chiusura dell’azienda: l’esperienza dimostra che, in caso di abbandono, la stessa bonifica viene compromessa. Miteni deve restare, completare i carotaggi e garantire a proprie spese la bonifica integrale di acque e suolo: la legge 68 sugli ecoreati parla chiaro, chi inquina paga». E l’amministrazione del Veneto? «È stato il governatore Zaia a richiedere i carotaggi, ora confidiamo che l’indagine giudiziaria faccia finalmente piena luce», dichiara l’assessore all’ambiente Giampaolo Bottacin «sul versante della salute, dai monitoraggi agli screening, stiamo attuando il programma concordato con l’Istituto superiore di sanità. Per quanto riguarda la sicurezza idrica, invece, a Carmignano di Brenta abbiamo completato lo scavo dei nuovi pozzi destinati ad alimentare con flussi “puliti” la grande falda di Almisano che serve gli acquedotti vicentini. «Il collegamento, com’è noto, richiede risorse superiori alle nostre disponibilità eil ministero ci ha promesso 80 milioni, ancora impigliati tra Cipe e Mef. Non chiediamo tutto e subito, basterebbero rate di una decina di milioni l’anno, così da realizzare l’opera a stralci. Finora, però, nonostante i solleciti, non abbiamo ricevuto nulla». (di Filippo Tosatto)

22 agosto 2017 – Il Mattino di Padova - Miteni: abbiamo scoperto la probabile fonte dei Pfas L’ad Nardone: «Sacchi di rifiuti industriali sepolti all’esterno dello stabilimento negli anni ’70. Era l’epoca Marzotto ma sosterremo noi le spese della bonifica» TRISSINO. «Sì, scavando nell’argine del torrente Poscola, in un terreno esterno all’impianto Miteni, i nostri tecnici hanno rinvenuto una vasca contentente sacchi di rifiuti industriali mescolati a calce, sepolti probabilmente negli anni Settanta quando Rimar, la società Ricerche Marzotto, realizzò l’attuale arginatura. Attendiamo l’esito definitivo delle analisi sui campioni prelevati ma abbiamo il fondato sospetto che sia questa la fonte inquinante che ha riversato i Pfas nelle acque mentre la trincea e i carotaggi eseguiti nel sito aziendale non hanno evidenziato alcuna traccia dei solventi al benzene ipotizzati dai carabinieri del Noe su base documentale». Parole di Antonio Nardone, l’amministratore delegato della società di Trissino indagata per la contaminazione idrica di una vasta superficie che dall’Ovest vicentino spazia alla Bassa padovana e lambisce il Veronese. Da più parti Miteni è additata come l’agente responsabile del maggior inquinamento ambientale registrato nel Veneto in tempi recenti. Lei, dottor Nardone, respinge l’accusa e sottolinea come siano numerose le imprese della zona che utilizzano le sostanze di sintesi perfluoroalchiliche. Ma quali elementi concreti supportano la vostra presunta estraneità? «Io sono arrivato a Trissino all’inizio del 2016 e tre mesi dopo è esploso il caso Pfas. Da allora, abbiamo adempiuto scrupolosamente a tutte le prescrizioni formulate da Arpav, autorità sanitarie, enti locali, magistratura. Il sito del nostro stabilimento sembra un campo di battaglia: oltre alla settantina di carotaggi già eseguiti (e altre centinaia seguiranno) abbiamo scavato un solco lungo quaranta metri per stringere al massimo la maglia dei controlli. Ebbene, dal nostro sottosuolo non è emerso nulla mentre le tracce della contaminazione, le concentrazioni molecolari sospette, conducono all’esterno, sull’argine appunto, e richiamano tempi lontani rispetto all’assetto attuale». Il punto critico riguarda l’inquinamento delle falde che ha imposto un piano straordinario di messa in sicurezza degli acquedotti accompagnato da monitoraggio sanitario e screening di una popolazione stimata in 120 mila persone, fino alla plasmaferesi, al “lavaggio del sangue” avviato in questi giorni negli ospedali di Padova e Vicenza. Anche nell’ottica di una responsabilità a ritroso, la legge sugli ecoreati vi impone di sostenere le ingenti spese di salvaguardia e bonifica. «Non ci sottrarremo agli oneri di bonifica, abbiamo già investito 15 milioni e il nostro piano industriale prevede ulteriori risorse umane e materiali in tale direzione. Ci accolleremo le spese necessarie ma le soluzioni possibili, dalla rimozione al contenimento, sono svariate e il punto di partenza è l’individuazione certa di un’area circoscritta contaminante. Finalmente, dopo tante voci incontrollate e allarmiste, siamo sulla buona strada. Noi continueremo a sforacchiare i terreni finché l’Arpav non riterrà sufficienti i test. Non abbiamo nulla da nascondere anzi abbiamo l’esigenza vitale che la verità venga a galla». A fine mese, dopo il decreto regionale che ha recepito una sentenza del Tribunale superiore delle Acque, Arpav renderà noti i registri di tutte le imprese che utilizzano, a vario titolo, i Pfas. Vi attendere sorprese? «Senz’altro sì, perché finora la normativa escludeva dal monitoraggio l’impiego di Pfas in percentuale inferiore all’1% o il ricorso ai suoi composti, vanificando di fatto ogni controllo preventivo». Che intende dire? «Miteni non produce più da anni Pfos e Pfoa ma queste sostanze vengono tuttora usate da oltre duecento industrie del settore conciario e manifatturiero presenti in zona che li acquistano sul mercato estero, imprese che sono allacciate agli stessi scarichi consortili a cui è allacciato il nostro stabilimento».

25/08/2017 – Il Mattino di Padova - La pattumiera interrata che sporca di Pfas il Veneto Le prime analisi: l’origine dei veleni nei rifiuti lungo l’argine fuori dalla Miteni TRISSINO. La pistola fumante l’hanno scovata a tre metri di profondità, sepolta nell’argine che separa il sito dello stabilimento dal torrente Poscola. «Dai carotaggi nell’area industriale non emergeva niente, così abbiamo allargato gli scavi all’esterno», racconta Davide Drusian, il chimico responsabile della sicurezza ambientale di Miteni «e poco dopo la benna la sollevato un sacco di plastica bianco, era zeppo di scarti industriali. In presenza dei tecnici Arpav ne abbiamo riportati alla luce a decine, misti a quattrocento tonnellate di materiali interrati: residui chimici, calce, ferro, alluminio, serbatoi, amianto perfino. Al colpo d’occhio, una pattumiera sopra la falda acquifera, sì». Oggi, a cinque mesi dalla scoperta, le analisi di laboratorio disposte dall’azienda (quelle dell’Arpav sono tuttora secretate dalla magistratura) hanno rivelato concentrazioni di sostanze perfluoralchiliche e benzotrifluoruri largamente superiori ai limiti di legge: eccola la sorgente inquinante, il vaso di Pandora dei Pfas e dei Btf che hanno contaminato suolo e acque nel cuore del Veneto. Un punto di svolta nelle indagini accompagnato dalla datazione documentale dell’evento: era il 1976 quando la proprietà dell’epoca - la società di ricerche e produzione Rimar di Giannino Marzotto - chiese e ottenne dal Magistrato alle Acque l’autorizzazione ad ampliare l’argine sul versante della collina: «Siamo convinti che il terrapieno sia stato colmato con sassi, terriccio e scarti di lavorazione. Successivamente, sopra i materiali, quasi un coperchio, furono collocati i tubi di raffreddamento degli impianti. La calce? Di solito serve a neutralizzare le tracce di acidità dei composti di sintesi... ». Una ricostruzione che attende conferma giudiziaria, senza dubbio. E un processo di accertamento delle responsabilità che si annuncia complesso per la successione di proprietà e di cicli produttivi - Rimar, Mitsubishi-Eni, Icig - che ne hanno scandito i cinquantatré anni di vita. Per raggiungere lo stabilimento vicentino occorre superare un outlet Armani discretamente affollato e il contrasto tra l’eleganza classica in vetrina e il grigio profilo delle ciminiere è impietoso. Al cancello, l’accoglienza cortese non cela l’ansia di ritrovarsi su una strada: «Da un anno e mezzo ci danno addosso, siamo diventati la fabbrica dei veleni, chiunque lancia accuse senza neppure conoscere cosa produciamo e come lavoriamo, di questo passo sarà difficile restare a galla». Miteni è un’azienda a ciclo continuo h 24 che produce additivi ignifughi per i policarbonati: auto, finestrini degli aerei, stent coronarici, padelle anche. La pausa agostana ha desertificato i reparti, dei 130 dipendenti non più di una ventina è al lavoro per la manutenzione. «Lo vede? Siamo in trincea», scherza Drusian indicando un solco lungo quaranta metri che attraversa il piazzale. Sembra una ferita ricoperta di cemento, testimonia la ricerca (vana) di veleni nel sottosuolo del sito, accompagnata da una ventina di carotaggi penetrati fino alla roccia. Un percorso accidentato che culmina nel fatidico argine, ora sigillato da un interminabile telone verde bandiera: guarda il torrente in secca, ha racchiuso per decenni sostanze tossiche capaci di contaminare una vasta superficie che dall’Ovest vicentino di estende alla Bassa padovana e lambisce il Veronese. Perché Miteni sorge sopra una falda di ricarica che assicura il rifornimento idrico a 120 mila persone. E se i Pfas non sono agenti pestiferi, chi ha bevuto per decenni l’acqua contaminata è esposto a rischi reali che investono l’apparato renale, i polmoni e la cute. Al punto da indurre la sanità del Veneto a invitare la popolazione coinvolta a sottoporsi alla plasmaferesi, il lavaggio del sangue sì. «Noi confidiamo che la verità venga a galla», sospira l’ad Antonio Nardone «stiamo investendo 15 milioni in opere di bonifica e messa in sicurezza e ci atterremo ad ogni prescrizione proveniente dalle autorità. La prossima tappa? Lavoriamo a rafforzare la barriera idraulica, cioè la rete di pozzi che preleva acqua inquinata, la ripulisce attraverso filtri di carbonio e la reimmette in falda». La frecciata finale: «Qui, dal 2011, non produciamo più i composti Pfas ritenuti pericolosi. Ma nella valle ci sono almeno duecento imprese che continuano ad utilizzarli acquistandoli all’estero e scaricando i reflui di lavorazione nello stesso collettore usato da Miteni. È un po’ curioso che nessuno chieda loro conto di nulla». (di Filippo Tosatto)
AltrAgricoltura Nord Est

venerdì 25 agosto 2017


 
News

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