Quarant’anni di lavoro.
Sarebbe tempo di mettere in discussione una volta per tutte la centralità del lavoro inteso come mezzo di liberazione. In fondo i ragazzi della cacciata di Lama, quarant’anni fa, lo avevano capito. Ma hanno perso.
Memoria di uno scontro – In questi giorni rievochiamo la cacciata di Lama dalla Sapienza, ed è cosa buona e giusta. Ma mentre lo facciamo sarebbe bene anche fare i conti con tutto quello che poi è stato. Tra le varie ragioni che giusto quarant’anni fecero da innesco a quello scontro – l’arroganza del Pci, per conto del quale il segretario della Cgil si era presentato nell’ateneo; la volontà di normalizzare un movimento; l’incomunicabilità tra posizioni che erano ormai chiaramente inconciliabili – c’era in primo piano l’insofferenza della quasi totalità di quello che sarebbe diventato il movimento del Settantasette nei confronti di termini come “lavoro” e “sacrificio”. Se la guardiamo da questo punto di vista, oggi più che mai è necessario dirsi che Lama ha vinto, nel senso che a vincere è stata la logica lavorista, quella del dovere, del sacrificio e del compromesso al ribasso. A dircelo sono i fatti, è lo stato delle cose; ed è la cronaca, con gli spunti che ci offre e con le analisi e i commenti che ne conseguono.
Michele e l’operaio – A tenere banco nelle ultime settimane sono state due vicende: quella del suicidio di un trentenne, Michele, e quella del lavoratore di uno stabilimento Fca costretto a farsela addosso perché il capo non gli ha dato il permesso per recarsi in bagno. Nel primo caso la lettera di Michele – un ragazzo vittima di una cultura che ti costringe al successo e alla realizzazione attraverso il lavoro – è stata eletta a manifesto generazionale. Nel secondo si è riproposta la rappresentazione degli operai metalmeccanici come individui in preda all’abulia e alla rassegnazione, quando chi conosce le fabbriche sa che le cose non stanno esattamente in questi termini.
Concorso di colpa – Potremmo fare un (lungo) elenco delle responsabilità che ci hanno portato dall’epica dello scontro della Sapienza all’operaio costretto a urinarsi addosso; potremmo – anzi, dovremmo – puntare il dito contro una politica che ha via via legittimato la precarietà lavorativa senza decidersi a dare vita a misure di contrasto a quella esistenziale o la condotta di un sindacato che, quando non ha lasciato soli i lavoratori, ha rinunciato alle lotte arrivando ad abiurare la propria storia e rinunciando ad affermare il principio della pari dignità tra lavoro e capitale. Ma sarebbe un esercizio sterile o insufficiente, perché il problema è anzitutto culturale.
Bertrand Russell & Bill Gates – Tutto – ma proprio tutto, dalla dinamica delle vicende al modo in cui le si commenta – ci mette davanti all’introiezione diffusa di una logica lavorista nel senso deleterio del termine: la cultura dell’etica del lavoro (che già negli anni Cinquanta Bertrand Russell liquidava come “etica degli schiavi”), quella che ci spiega che “un lavoro qualsiasi è meglio di nessun lavoro” e che costringe a scelte come quella tra lavoro e salute, come ci insegna per esempio l’esperienza di Taranto e dell’Ilva. O quella, applaudita nei giorni scorsi da tanta sinistra, del Bill Gates che propone la tassazione dei robot per rendere competitivo il lavoro umano. Non sarebbe invece il caso di parlare di liberazione del (e dal) lavoro e dell’utilizzo dell’automazione per arrivare allo scopo? Sarebbe davvero un’utopia sovvertitrice?
La strada più semplice – Tornando all’eredità di Lama appare chiaro come il sindacato e la sinistra vedano in concetti come questo l’imbocco di una strada impraticabile e ingestibile. Per rendersene conto è sufficiente pensare ai protagonisti del congresso fondativo di Sinistra italiana ed andare a riascoltare alcuni interventi, tutti critici ma organici a un sistema che negli ultimi anni ha visto trionfare la subalternità alla logica del profitto e l’attacco frontale alla dignità di chi lavora. Non si contempla nemmeno più la possibilità della lotta e dell’insubordinazione, così si finisce per ascoltare Maurizio Landini, Nicola Fratoianni e compagni(a) che commentano la vicenda dei “rider” di Foodora all’incirca nello stesso modo di Massimo Gramellini. Ricorrere al mantra della riunificazione del lavoro senza mettere in discussione l’etica del lavoro alle fondamenta è una resa, è la strada più semplice per evitare uno scontro culturale che sarebbe invece indispensabile: perché non si può pretendere che un sistema generi una cultura contro sé stesso.
Il lavoro rende liberi – Chiunque abbia frequentato le fabbriche si è imbattuto almeno una volta nella scena dell’operaio di vecchio stampo, comunista e sindacalizzato, che redarguisce il giovane impegnato a contestare i ritmi e le logiche della produzione invitandolo a fare fino in fondo il proprio dovere – quello per cui è pagato – per poi, semmai, protestare con pieno diritto. Con tutto il rispetto per il primo, sarebbe tempo di iniziare a comprendere le ragioni del secondo, un individuo precarizzato condannato a vivere nell’incertezza e a contare quanto tempo gli resta da lavorare prima di accumulare i quaranta o più anni di lavoro che gli consentiranno di affrontare la vecchiaia con il conforto di una pensione da fame. Sarebbe tempo di mettere in discussione una volta per tutte la centralità del lavoro inteso come mezzo di liberazione e realizzazione della persona e quella del sacrificio inteso come dovere etico, un’assurdità che – non dimentichiamolo – stava scritta all’ingresso di un campo di sterminio. L’alternativa sono la scelta di un ragazzo che si chiama fuori anche perché è arrivato a pensare che senza un lavoro la vita non valga la pena di essere vissuta e la realtà di operai che devono chiedere il permesso perfino per andare in bagno. Lama ha vinto, su questo non ci piove; ma i ragazzi della Sapienza avevano capito tutto, avevano provato ad aprire la strada. E a fare bene i conti forse sarebbe bene cominciare a dare loro ascolto, anche se con quarant’anni di ritardo.
(di Marco Arturi)
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martedì 28 febbraio 2017
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