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"Non riusciranno a strappare la pace alla Colombia per cinque centesimi". Intervento di Gabriel Angel.

Pubblichiamo, sulla situazione in Colombia, un articolo di Gabriel Angel, rivoluzionario, guerrigliero e scrittore colombiano. Avvocato e militante della Unión Patriótica dalla sua fondazione, si è visto obbligato dalla guerra sporca ad entrare nelle FARC dal 1987. Ventinove anni di esperienza nelle montagne della Colombia hanno fatto di lui un pensatore e scrittore rivoluzionario.

La guerra non tornerà. Il cessate il fuoco e la sospensione bilaterale e definitiva delle ostilità non possono essere ritirati senza grave danno per il Paese e per la sua gente. La mattina di mercoledì 28 settembre, prima di partire per l’Avana, Padre Carlos, Gesuita, direttore di Villa Claver, la casa per ritiri spirituali dove siamo stati ospitati durante il nostro viaggio verso Cartagena, ha chiesto a tutti noi delegati delle FARC presenti di raggrupparci per scattare una fotografia con lui e con tutto il personale che lavora nella Casa. Poi ci ha invitati nella cappella, che ha descritto come il luogo più importante della sua umile locanda, dove tutti abbracciati e ad occhi chiusi, come ci ha gentilmente proposto, abbiamo ascoltato le sue parole di pace, di fede nel futuro e di benedizione per la Colombia, concludendo il breve rito con la recita generale del Padre Nostro, come gesto di riconciliazione e di perdono. Poco dopo saremmo saliti sui veicoli blindati e sugli autobus con i quali il dispositivo di sicurezza della Polizia Nazionale garantiva i nostri spostamenti; lì, avevamo convissuto con loro per tre giorni ed era accaduta una cosa inimmaginabile fino ad allora: nessuno di noi era rimasto di guardia durante la notte, tutti dormivamo tranquilli e fiduciosi sotto la loro custodia esclusiva. Fin dalla nostra partenza dall’Avana verso la Conferenza Guerrigliera e poi verso Cartagena, siamo stati in costante contatto con personale delle Forze Armate ufficiali; devo dire che mai, neppure leggermente, qualcuno di noi ha ricevuto un trattamento scortese o indifferente: la gentilezza, persino la fraternità, hanno sempre costituito la nota dominante. Non ho mai avuto conversazioni lunghe con nessuno di loro, ma generali, colonnelli, capitani, sottufficiali e militari di truppa si sono sempre mostrati molto cordiali: all’aeroporto di La Macarena, un colonnello dell’Esercito mi ha confessato in tono amichevole come, nel quadro del Plan Patriota, erano entrati nella selva per inseguirci e che io ero nella lista dei suoi obbiettivi.

A un capitano della Polizia che, mentre attendevamo il volo, chi ha offerto uno spuntino, ho chiesto scherzando se non gli interessassero più i nostri cadaveri; con un sorriso di pudore mi ha risposto spontaneamente di no, che le cose erano molto cambiate e che a loro, in particolare, più o meno dal 2012, avevano tolto quel chip dalla testa. Devo dire che tutto ciò, nel suo insieme, parlava di una realtà nuova nel Paese; militari, poliziotti e guerriglieri non solo potevano parlare tra loro, ma scoprirsi nella loro condizione umana, vedersi come persone uguali che non avevano motivo di odiarsi né di uccidersi, per non parlare dei civili, uomini e donne con i quali abbiamo avuto a che fare, che ci hanno sempre espresso la loro ammirazione. Ho visto le famiglie di alcuni compagni che erano venute dagli angoli più remoti del Paese per avere l’opportunità di vedere e abbracciare i loro cari, che non vedevano da anni e ai quali avevano anche portato delle pietanze, di quelle che le mamme preparano in casa, con affetto, affinché i loro figli o fratelli potessero tornare ad assaggiarle. Una guerrigliera che era tornata in Colombia mi ha raccontato che durante i giri e le tappe che l’elicottero doveva compiere per portarli a destinazione, aveva conversato con un capitano e di come questi, in tono accorato, le chiedeva di non tornare in montagna: si era reso conto di chi erano coloro ai quali dava la caccia per ucciderli e non voleva tornare a farlo. Sul piano personale, ritengo che nel processo di pace dell’Avana, parallelamente a quanto concordato, noi Colombiani ci siamo man mano conosciuti e scoperti; il mito della guerriglia spietata e criminale è crollato rapidamente davanti agli occhi di molti compatrioti che avevano sempre creduto alla versione fatta circolare dai loro veri nemici. Ho l’assoluta convinzione che il totale dei voti per il Sì appartengano a gente che ha imparato l’importanza della pace e della riconciliazione per il Paese, che ha compreso che la guerra non può essere la via nella quale si finisca per far precipitare la Colombia; vuol dire che la metà della gente che si è pronunciata lo ha fatto con coscienza, perché ha meditato e valutato ciò che era più conveniente. Non credo si possa dire lo stesso dell’altra metà, di coloro che si sono pronunciati per il No; un’alta percentuale lo ha fatto ingannata dalla propaganda allarmista fondata su complete falsità, altri perché hanno malinteso che votando per il Sì avrebbero appoggiato il governo di Santos, al quale vanno molte critiche. La manipolazione della destra è stata estremamente grossolana, tanto che gli avvenimenti nel Paese andavano in direzione contraria al suo discorso di odio. Le Colombiane e i Colombiani di Bojayá o la Chinita, per citare solo alcune vittime specificamente attribuite solo alle FARC dalla propaganda di demonizzazione, si sono abbracciati con la nostra delegazione, in un gesto di perdono e riconciliazione e hanno indicato altri colpevoli. Si veda il comunicato “Perdón, Chinita - Perdón, Bojayá”. Una cosa inconcepibile per i promotori del No, i quali sanno che i loro principali capi sarebbero chiamati a rispondere delle loro azioni davanti alla Giurisdizione Speciale per la Pace e che se non dicessero la verità pagherebbero con pene elevate e che, pertanto, si impegnano nel parlare di impunità per una guerriglia che non esita a chiedere perdono, abbracciare le vittime e dare riparazione.

Noi che amiamo la pace abbiamo guadagnato moltissimo con questo processo e con l’Accordo finale. La metà cosciente della popolazione colombiana sta con noi, senza contare l’immensa massa che, per qualche ragione, non ha votato. Sono mancati i famosi cinque centesimini (riferimento a una popolare canzone di Julio Jaramillo, N.d.T.), ma per questo non permetteremo che le cose tornino indietro: gli accordi sono una conquista che non ci lasceremo togliere. La pace e i suoi benefici sono penetrati nella mente della immensa maggioranza dei Colombiani, questo è fuori da qualsiasi discussione; la prova è che persino la destra più estrema dice di non volere la guerra ma una pace diversa, deve mascherarsi allo scopo di ribaltare ciò che teme degli accordi. Diciamolo senza esitazioni: la guerra totale, oggi, interessa solo a un demente. È questo cio che noi, che siamo per il Sì, dobbiamo sfruttare al massimo; la guerra non tornerà, La guerra non tornerà. Il cessate il fuoco definitivo non possono essere ritirato senza grave danno per il la Colombia. Ciò di cui c’è bisogno è correggere l’errore causato dal risultato del plebiscito, al fine di implementare ciò che è già stato sottoscritto e riconosciuto pienamente dalla comunità internazionale. La Corte Costituzionale lo aveva detto, che il plebiscito avrebbe avuto solo effetti politici, non giuridici e la politica si affronta con la politica, con masse popolari che si pronunciano in ogni modo possibile per la pace, nelle piazze, nelle strade, nelle università e nelle scuole, in ogni angolo del Paese. Tutto il sentimento per la pace deve venire a galla e manifestarsi. Ciò che l’ultradestra cerca di fare è mettere all’angolo Juan Manuel Santos con un risultato dubbio, con una staffilata; la guerra, nel nostro Paese, è sconfitta e questo non lo può negare nessuno. L’attuale ambiente di riconciliazione e fraternizzazione tra soldati, poliziotti e guerriglieri non potrà più essere rotto; i Colombiani non potranno più ammazzarsi tra loro per i demoni di Uribe. (Autore: gabriel angel - traduzione italiana Gorri)
www.controlacrisi.org

domenica 9 ottobre 2016


 
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