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Olio di palma: i media ne parlano sempre di più e i consumatori fanno pressione. Le aziende modificano le loro politiche e le rendono più sostenibili.

Foreste distrutte, animali massacrati, pericoli per il clima e scarsa tutela per i lavoratori. Questa volta è l’Huffington post a denunciare, con un lungo articolo, i rischi connessi alle coltivazioni intensive di palma da olio. Partendo dalla storia di Kesi, un cucciolo di orango che vive in Borneo, mutilato dai bracconieri che avevano ucciso la madre tentando di allontanarla dal suo habitat per fare spazio alla coltivazione di palme.

Oggi Kesi si trova al sicuro, in un rifugio dell’organizzazione Orangutan Outreach. Ma il problema dei danni causati dalle piantagioni resta – come testimonia un breve video realizzato da Greenpeace, Protect Paradise. Qualcosa però sta cominciando a cambiare, grazie anche all’attenzione dell’opinione pubblica, come dimostra il successo della petizione lanciata da Il Fatto Alimentare. “Solo due anni fa era impensabile che i media o l’opinione pubblica prestassero tanta attenzione all’olio di palma, ma oggi le cose sono cambiate”, afferma Gemma Tillack, dirigente del Rainforest Action Network. Le preoccupazioni sono più che giustificate. Oggi, spiega l’Huffington Post, meno di 50.000 oranghi vivono ancora allo stato libero nelle isole di Borneo e Sumatra, una delle aree dove la coltivazione di palme è più diffusa: migliaia di animali sono stati uccisi o feriti come diretta conseguenza delle coltivazioni, o sono morti in seguito alla deforestazione, e si stima che se l’espansione delle coltivazioni dovesse continuare al ritmo attuale gli oranghi potrebbero estinguersi in meno di un quarto di secolo. Dagli anni ’90, infatti, i consumi di olio di palma sono quintuplicati, e il trend è in continuo aumento. Grazie al basso costo e al suo rendimento, questo grasso è estremamente diffuso, a volte con nomi diversi – tanto da essere ritenuto dagli ambientalisti una delle minacce ambientali più gravi dei nostri tempi. Second il WWF, ogni ora viene distrutta, per lasciare spazio alle coltivazioni, un’area di foresta pluviale equivalente a 300 campi di calcio, riducendo l’habitat di molte specie in pericolo di estinzione, oltre a compromettere la vita delle comunità locali e a contribuire all’effetto serra: si calcola che la deforestazione nelle aree tropicali sia responsabile del riscaldamento globale per il 15/20%, vale a dire più delle emissioni provenienti da auto e altri mezzi di trasporto.

La scarsa trasparenza delle imprese rende difficile quantificare i danni causati dalle piantagioni di palma che sarebbero, secondo gli ambientalisti, una delle principali cause di deforestazione – insieme alla produzione del legno – in Indonesia e Malesia, i due principali produttori. La maggior parte delle palme da olio cresce sulle isole di Sumatra, in Indonesia, e nel Borneo che è diviso tra Indonesia Malesia e Brunei: due aree particolarmente importanti dal punto di vista ambientale. Secondo Tomasz Johnson della Environmental Investigation Agency (EIA) il governo indonesiano fin dagli anni ‘60 ha ceduto a imprese private grandi aree di territori dove si trovavano comunità indigene “che in questo modo hanno perso autonomia e sicurezza, finendo per dipendere dai bassi salari pagati nelle piantagioni”. Dove i diritti dei lavoratori sono scarsamente tutelati e dove, secondo fonti americane, si fa ancora ampiamente ricorso al lavoro minorile. Oggi le cose stanno cominciando a cambiare: i consumatori sono più informati e fanno pressione sulle aziende spingendole ad adottare almeno formalmente politiche più sostenibili. Nel 2013, per esempio, la Wilmar International di Singapore, che controlla circa metà del mercato mondiale di olio di palma, ha annunciato che entro due anni i suoi fornitori non avrebbero più fatto ricorso alla deforestazione, e anche importanti multinazionali dell’alimentazione come Nestlé, General Mills, Kellogg’s e Hershey hanno preso impegni di questo tipo. Inoltre, cosa anche più importante, poche settimane fa 16 aziende tra cui PepsiCo, Colgate-Palmolive e Starbucks hanno invitato la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), l’organizzazione creata nel 2004 per promuovere la produzione e il consumo sostenibile di olio di palma, ad adottare criteri più rigidi. In passato la RSPO, che conta oltre un migliaio di membri (tra cui la Ferrero) è stata duramente criticata per non aver monitorato adeguatamente i propri membri, e per non essersi impegnata a sufficienza per limitare la deforestazione.

E in effetti la difficoltà di tracciare la produzione, che in gran parte proviene da piccole coltivazioni disperse sul territorio, dove è difficile garantire controlli, resta una delle sfide più grandi che l’industria deve affrontare. Secondo un rapporto realizzato nel 2014 dall’EIA, il tasso di illegalità in queste coltivazioni sarebbe intorno all’80%. “Il livello di adesione alle norme in questo settore è molto basso, e anche gli interventi repressivi sono scarsi a causa della diffusa corruzione”, sottolinea Johnson. “Per i consumatori, questo significa che è molto probabile che l’olio di palma che consumano sia stato prodotto illegalmente, e quasi certo che non si tratti di una produzione sostenibile”. Considerando che la richiesta di olio di palma continua ad aumentare, rischiando di coinvolgere anche altre aree vulnerabili dal punto di vista ambientale, in Asia ma anche in Africa e in America meridionale, le associazioni ambientaliste chiedono un maggior impegno da parte dei consumatori, e una collaborazione tra governi e aziende per l’adozione di politiche responsabili. Qualcosa, forse, si sta muovendo: anche l’Unione europea sta valutando la possibilità di ammettere, entro il 2020, solo l’importazione di olio di palma da produzioni sostenibili. (di Paola Emila Cicerone)
www.ilfattoalimentare.it

martedì 11 agosto 2015


 
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