Su Zangheri, il Pci e l’agiografia revisionista.
La morte di Renato Zangheri, con il seguito di agiografie santificatorie, persino su Il Manifesto che fino a prova contraria reca in testata “Quotidiano comunista”, pone un problema annoso e purtroppo mai superato: il revisionismo storico sul ruolo del Pci dal dopoguerra alla sua dissoluzione. Di più, se possibile, nella città di Bologna che il Partito elesse a sua “vetrina” e a terreno di sperimentazione della governance sociale, politica, accademica ed economica da applicare poi alle scelte strategiche sul nazionale.
Con i risultati oggettivi che rimangono scolpiti a fuoco nella storia del paese: la scelta Atlantica, l’alleanza con il Partito dei padroni, della mafia e delle stragi, le politiche antioperaie, la riduzione dell’eroica riscossa partigiana comunista a fatto storico irrilevante in nome della pacificazione nazionale, la messa all’indice come “reazionario”, “diciannovista”, “al servizio di forze oscure” di qualsiasi movimento proletario avesse la pretesa di muoversi autonomamente sui propri bisogni una volta presa coscienza del sé come classe subalterna e sfruttata.
Di più, ancora, nei Settanta quando su quei movimenti volti a un cambiamento radicale dei rapporti di forza nella dialettica lavoro vivo-capitale scatenò la repressione alla sua sinistra in complicità con le forze, quelle sì oscure, dello Stato e dei Servizi. E non ci andarono leggeri: servizi propri di spionaggio e dossieraggio illegale sulle avanguardie di fabbrica e sui territori, organizzazione della delazione di massa su qualsiasi comportamento individuale odorasse di “terrorismo”, fino a voltarsi dall’altra parte sulle torture ai prigionieri politici catturati che sapevano benissimo, soprattutto i vertici, essere in normale uso da parte delle forze dell’ordine.
E visto che le polemiche sono partite da Bologna è sempre bene ricordare agli accomodanti agiografi, revisionisti ben retribuiti e giustificazionisti di sinistra che in questa città solo nel Settantasette vi furono oltre 300 arresti, una valanga di denunce, centinaia di feriti dovuti alle aggressioni delle divise blu e nere, perquisizioni a tappeto, una radio libera chiusa e devastata, i carri armati dei Carabinieri per le strade tra gli applausi dei dirigenti del Partito, in tanti della base e del Sindaco. Ma prima, molto prima di tutto l’assassinio per mano sbirra di un comunista, un generoso compagno di nome Francesco Lorusso.
E dannatamente, ancora oggi, e a “sinistra” sentiamo voci equivoche (a pensar bene) che tentano una pur becera giustificazione: “Sì però in fondo Berlinguer era una persona onesta”, “Sì però l’amministrazione era migliore”, “Sì però c’era un welfare più sviluppato”, “Sì però c’erano gli asili e i trasporti gratis”, “Sì pero Zangheri diede il Cassero alla comunità omosessuale”, “Sì però c’era una Giunta illuminata che aveva una visione del futuro”, “Si però almeno con loro ci si poteva ancora parlare pur non essendo d’accordo”... Un po’ come quelli che dicono “Non sono razzista ma”. Troppo comodo, signore e signori, troppo comodo.
Così, tra un “Sì però” e l’altro siamo arrivati fin qui: disoccupazione di massa in crescita costante, precarizzazione di ogni forma di vita, privatizzazioni selvagge, sfratti di famiglie povere fuori controllo, aziendalizzazione della Scuola e dell’Università, consumo abnorme e devastazione del territorio per arricchire i palazzinari privati e i cementificatori delle Cooperative, distruzione del welfare cittadino, un sistema integrato tra Partito, Questura e Procura che in nome dei bei vecchi tempi di cui sopra usa arresti, divieti di dimora, fogli di via e decreti penali di condanna nei confronti di qualunque voce libera osi ribellarsi o anche solo sognare un futuro diverso.
Ma statene certi cari agiografi e revisionisti destri e sinistri: quella “vetrina” è stata spaccata per sempre e vi sarà impedito di riaggiustarla, poiché se avete spazzato via una generazione politica di sognatori, un’altra ha preso il suo posto e poi un’altra e un’altra ancora. E così sarà per sempre finché ci sarete voi.
(di VALERIO GUIZZARDI)
CHI SONO IO PER GIUDICARE ZANGHERI??
L’11 marzo del 1977 un plotone di carabinieri sparò contro un gruppo di studenti colpendone uno (alle spalle). Francesco Lorusso morì dopo pochi istanti. Migliaia di persone invasero la città, occupandone il centro con barricate e cortei, fin quando la polizia mandò dei tank per sgomberare il quartiere universitario. Zangheri si rivolse allora alla polizia con le parole: “Siete in guerra e non si critica chi è in guerra.”
Frase disgraziata, perché chi è in guerra contro la società (come era allora la polizia al servizio del governo di unità nazionale DC-PCI) si dovrebbe criticare, eccome. Il PCI, di cui Zangheri era un dirigente, scelse di difendere l’ordine e di isolare il movimento. Alla lunga sappiamo che fu una battaglia persa, anche se riuscì a peggiorare di gran lunga le condizioni in cui il movimento poté continuare la sua esperienza, spingendone alcuni frammenti verso la lotta armata. Il ricordo che ho di Renato Zangheri è legato a quegli eventi, e a quell’anno.
Poi iniziò la lunga storia della pacificazione tra la città e gli studenti, e Zangheri rivelò poco alla volta di essere molto meno dogmatico e stalinista di come aveva mostrato di essere in quel momento. Mi è capitato di incontrarlo, molto più tardi, e mi è parso un uomo consapevole del fatto che talvolta siamo costretti a svolgere un ruolo che intimamente non ci piace. Provai in quell’occasione una simpatia umana profonda per quel vecchio comunista che aveva ancora l’energia intellettuale di mettere in discussione il suo passato.
Ma forse è stupido parlare delle persone col tono di chi giudica. Chi sono io per giudicare Zangheri? Preferisco riflettere sulle ragioni per cui, al di là delle frasi disgraziate, eravamo tanto diversi e però anche vicini, seppure nella polemica.
Eravamo diversi perché Zangheri, come i compagni del suo partito, a cominciare con Enrico Berlinguer pensavano che il progresso della società venisse dall’imposizione di un ordine politico, mentre io come i compagni del mio movimento pensavamo che il progresso della società venisse dallo scatenamento delle energie autonome della società medesima. Per noi la ribellione contro l’ordine del lavoro era un fattore di rinnovamento e di libertà, mentre per il partito di Zangheri la ribellione contro l’ordine del lavoro era un indizio pericoloso di anarchia imminente.
Il risultato fu quello che sta sotto i nostri occhi: noi avevamo ragione nel rivendicare l’autonomia della dinamica sociale, ma la separazione tra dinamica sociale autonoma e politica ha prodotto il trionfo del Neoliberismo.
Alla fine chi cerca scorciatoie giornalistiche chiede: Ma insomma, aveva ragione Zangheri (e il suo partito) o aveva ragione il movimento autonomo degli operai e degli studenti?
Io non rispondo a questa domanda, perché nella storia i problemi non trovano mai la loro soluzione, dato che mentre cerchi la soluzione il problema è già cambiato da cima a fondo.
Non lo sapremo mai chi aveva ragione nel 1977. Quello che sappiamo è che gli eventi si sono sviluppati in una maniera molto più simile alle nostre immaginazioni anarco-comuniste di scatenamento che alle pretese statal-comuniste di governo razionale su un sistema capitalistico che con la ragione non c’entra niente.
Ma questa è ormai storia antica. Se ripenso a Zangheri con lo sguardo dell’oggi mi viene in mente che con i politici di quell’epoca era possibile discutere, litigare, e alla fine trovarsi d’accordo o in disaccordo. Era gente che pensava, anche se a mio parere pensava cose sbagliate, superate o autoritarie.
Nell’epoca presente è divenuto impossibile discutere, litigare, essere in disaccordo o magari anche d’accordo, per la semplice ragione che l’azione politica non ha più nulla a che fare col pensiero. È mera esecuzione di ordini che stanno scritti negli algoritmi finanziari, o calcolo dei giorni che mancano perché maturi la pensione di deputato.
(di FRANCO BERARDI BIFO)
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domenica 9 agosto 2015
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