Le due scienze e gli Ogm.
Questione quanto mai affascinante, carica di implicazioni scientifiche, economiche, politiche, morali. Del resto è sempre stato così: l’avanzamento delle conoscenze scientifiche pone dei problemi circa le loro applicazioni tecnologiche. Non tutto ciò che si può fare va fatto. Non c’è scienza che ci possa esimere dal chiederci se le nostre azioni sono utili, giuste, buone e persino belle o brutte. La tecnica presenta una ambiguità: crea dipendenza e asservisce l’utilizzatore ma anche contiene in sé un potenziale di liberazione delle facoltà umane.
Molti pensatori hanno parlato dell’esistenza di due forme di tecnica: quella definita “chiavistello”Clicca per Eliminare da Ivan Illich, che agisce da “braccio secolare” dei grandi poteri economici industriali (Marcello Cini), “diretta al dominio della natura e alla volontà di potenza su di essa” (Benjamin) e quella che invece tende a sviluppare un rapporto armonico tra l’umanità e la natura che riguarda anche il rapporto reciproco tra gli esseri umani. Come è il caso delle scienze ecologiche e in generale delle scienze post-normali o della complessità. Il grande economista André Gorz auspicava che “La produttività gigantesca della tecnoscienza deve servire ad economizzare il tempo di lavoro e il dispendio di energie necessarie al fiorire della via” (Ecologica, Jaca Book, 2009). Il contrario di produrre disoccupazione e inaridire il pianeta.
L’introduzione di Ogm in agricoltura non può sfuggire a questa griglia di verifiche intrecciate in tutti i campi del sapere umano. Partendo da quella più “banale”, sanitaria, che riguarda le possibili alterazioni nelle strutture delle cellule di alcuni organi degli animali che si nutrono di piante Ogm. Abbiamo imparato che i danni non sono sempre immediatamente riscontrabili e che alcune patologie hanno periodi di latenza molto lunghi. Serve far nomi dei danni arrecati da alcuni prodotti industriali? Anche se la nostra società si è abituata a convivere con rischi di tutti i tipi, ciò non è una buona ragione per tralasciare il saggio principio di precauzione.
Poi vanno studiati gli impatti ecosistemici. Produrre piante più resistenti ai diserbanti significa consentire agli agricoltori di aumentarne le dosi di prodotti chimici (glifosfato) da sversare nei campi e – inevitabilmente – nelle falde. Coltivare piante capaci di produrre tossine respingenti gli insetti significa provocarne una selezione permanente ad ampio raggio anche degli insetti utili. Infatti, il mercato dei pesticidi e dei concimi cresce con il diffondersi degli Ogm. Le pratiche di “confinamento” delle produzioni Ogm (fasce “cuscinetto”, zone boscate, ecc.) non possono dare garanzie assolute contro l’impollinamento dovuto ai venti, o le lavorazioni in mulini e il trasporto su mezzi non sempre “dedicati”.
Prima ancora c’è il dubbio sulla fallacia del metodo biogenetico (“errore epistemologico”). Uno degli esperti più ascoltati dagli agricoltori, Gianni Tamino, ci dice: “Chi crede nella possibilità di determinare una caratteristica di un organismo inserendo un gene ignora che per funzionare i geni hanno bisogno di un complesso sistema di regolamentazione che può essere compromesso dall’inserimento di un gene estraneo. Per articolare una frase non basta conoscere l’alfabeto, serve anche un dizionario, una grammatica e una sintassi”. Non è un caso se fin’ora patate, pomodori, fragole Ogm hanno avuto pessimi risultati e sono stati ritirati dal mercato.
Più di ogni cosa va studiata l’utilità in sé dei nuovi ritrovati. Il dubbio è che gli Ogm non servano tanto ad aumentare le rese ad ettaro di terreno, quanto piuttosto a facilitarne la produzione agricola con tecniche industriali. Non servono a produrre più cibo ma a ridurre l’occupazione contadina, a concentrare la proprietà delle terre e ad aumentare i profitti dei grandi cartelli sementieri e farmochimici. Già oggi il 75% del mercato delle sementi delle 12 specie di piante più coltivate nel mondo è in mano a cinque multinazionali; un monopolio che mette a rischio la sovranità e la sicurezza alimentare di grandi aree del pianeta, condannate dalle “leggi del mercato” a lavorare per l’esportazione. Soia e Mais transgenici servono ad alimentare bestiame che i poveri non mangeranno mai o per raffinare biodisel per le automobili del primo mondo. Graziano da Silva, direttore della Fao, spiega che la prima arma contro la fame nel mondo è garantire ai contadini l’accesso alla terra e salvare le economie di sussistenza dall’invasione degli agrobusinness.
Infine c’è il grande paradosso della libertà di impresa. Contaminare l’agricoltura biologica e trasformare i contadini in salariati agricoli non sembra un gran passo avanti culturale nell’organizzazione sociale. Viceversa, servirebbe più ricerca disinteressata e più sperimentazione a favore dell’agroecologia, della permacultura, della agricoltura biologica, della rinaturalizzazione dei terreni desertificati dagli effetti contro-produttivi della “rivoluzione verde”. Non meno, quindi, ma più scienza finalizzata però alla rigenerazione della biodiversità, alla qualità del cibo, all’aumento dell’autonomia alimentare ed economica di quella metà del mondo che – non dimentichiamocelo – vorrebbe continuare a vivere nelle campagne.
(autore: Paolo Cacciari)
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lunedì 10 marzo 2014
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