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..McStrike.

Caro McDonald, abbiamo un problema. E questo problema sei tu. Tu, insieme a Wendy’s, Burger King, Taco Bell, KFC, Pizza Hut, Domino’s e Papa John’s: i giganti dell’industria del fast food. Entità che impiegano milioni di persone in tutti gli Stati uniti, costringendole a orari estenuanti per salari da fame: il minimo federale, cioè 7,25 dollari l’ora, o poco più.

Al loro fianco ci sono tutti gli sfruttati nella grande distribuzione: da Wal-Mart a Macy’s, con condizioni talmente insopportabili che la scorsa settimana sono scesi in strada in migliaia in oltre sessanta città del Paese. Da Chicago a New York, da Oakland, fino all’estremo Sud storicamente poco reattivo alle istanze sindacali, dalle 5,30 del mattino, quando parte il primo turno di lavoro, fino a sera inoltrata, per una delle manifestazioni diffuse più riuscite negli ultimi vent’anni. La parola d’ordine è Fight for 15 (http://fightfor15.org/en/), cioè lottare per portare il salario minimo ad almeno 15 dollari l’ora. Una mobilitazione talmente d’impatto che la candidata a sindaco di New York e attuale portavoce del Consiglio comunale Christine Quinn si è unita ai dimostranti a Manhattan brandendo il cartello «In sciopero: stipendi dannatamente troppo bassi». E che numerosi think tank neoliberisti, compreso il conservatorissimo Demos, si sono affrettati a dichiarare che se il salario minimo fosse realmente agganciato a produttività e inflazione non potrebbe scendere al di sotto dei 17 dollari. Il suo golden boy, l’analista Robert Hiltonsmith, ha dichiarato alla stampa che stando ai loro dati il 70 per cento dei lavoratori di questo settore non ha l’età di un teenager al primo lavoretto, e che un terzo degli over 20 ha la licenza superiore in tasca. Ma c’è stato anche l’Employment Policies Institute, che vede molti dei giganti del retail tra i committenti dei suoi studi, che giovedì 29 agosto ha acquistato una pagina intera del Wall Street Journal perché pubblicasse un sinistro avvertimento: l’immagine di un robot-cuoci-pancakes e una scritta «stipendi più alti uguale meno posti di lavoro e più distributori automatici».

Eppure per molti dei dimostranti non c’è altra scelta che lottare. Uno su quattro è un genitore che non riesce a comprare per i figli abiti o scarpe, figuriamoci cure mediche. E stando ai conti pubblicati dalla campagna, mentre il settore del fast food porta a casa 7,35 miliardi di profitti, in media i loro lavoratori non guadagnano più di 11.200 dollari l’anno. Una condizione che la crisi aggrava perché lo spettro sventolato davanti agli occhi di tutti questi lavoratori poveri è quello dei 10 milioni di statunitensi (l’8,2 per cento della forza lavoro) che oggi sono disoccupati. Peraltro, secondo un recente studio dell’Università di Georgetown, circa 4 su 5 dei posti di lavoro spazzati via dalla crisi, era da profili con la licenzia media o meno, tra i quali anche negli anni della ripresa si sono persi ben 230mila posti. Anche per i manager in questo settore c’è poco da star allegri: Dawn Hughey, 49 anni, 4 persone in staff, intervistata da HuffPost Business, era manager di Dollar General, (il principale competitore di Walmart) in un punto vendita alla periferia di Detroit. Dopo una carriera interna di tutto rispetto, affrontava turni da oltre 70 ore a settimana per un salario da 34.700 dollari l’anno, cioè meno di 10 dollari l’ora. Dopo un permesso di malattia di tre giorni, prescritto dall’Ospedale più vicino per un grave incidente alla schiena che si era provocata spostando una cassa in negozio, è stata licenziata in tronco per «calo di produttività». Eppure di punti vendita questi gruppo ne ha aperti uno ogni sei ore nell’ultimo anno: oggi ne ha più di 25mila, impiega 220 mila persone a tempo pieno e con la politica di un’ampia offerta di prodotti a 99 centesimi prolifera nei quartieri poveri all’ombra della crisi, tanto che il solo Dollar General nel 2010 ha incassato un fatturato da 16 miliardi di dollari. Per reggere i suoi prezzi stracciati, però, non può che ipersfruttare i suoi lavoratori. Tanto che 6mila di essi hanno presentato a inizio 2013 un ricorso congiunto per le violazioni subite.

Sfioriamo il paradosso quando apprendiamo che i pragmaticissimi esperti dello staff del partito democratico nella U.S. House Committee on Education and the Workforce hanno quantificato che un solo Walmart da 300 dipendenti in Wisconsin, considerato che con le loro paghe essi non potranno che rivolgersi all’assistenza pubblica per campare, costerà ai contribuenti Usa ogni anno almeno 904mila euro l’anno tra buoni pasto, assistenza medica gratuita, assistenza scolastica. Il conto è facilmente fatto visto che chi lavora per meno di 10 dollari al giorno può accumulare benefit che vanno dai 10 ai 20mila euro l’anno se ha figli, è veterano, è inserito in programmi particolari, per minoranze o comunità specifiche. E le proporzioni del disastro annunciato si chiariscono definitivamente se si considera che, stando al National Employment Project, nel 2012 il 26 per cento dei 29,6 milioni di posti di lavoro nel settore privato valevano meno di 10 dollari l’ora. I poveri costano, insomma, avverte la politica progressista. E se s’incazzano lo scomodo raddoppia. Il sogno americano è relegato ai consigli per gli acquisti tra una soap e l’altra. Scommettiamo che non dura? (di Monica Di Sisto)
http://comune-info.net

domenica 15 settembre 2013


 
News

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