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L’ILVA FUNESTA.

Provvedimenti disciplinari. Minacce di licenziamento. Scontri tra sindacati. E morti sul lavoro. La guerra di Taranto non è finita Quindici milioni di metri quadrati ricoperti di ferro e cemento, tre volte la città di Taranto. Duecento chilometri di binari e 50 di rete stradale. Se vi siete impressionati a guardare da lontano lo stabilimento Ilva e le fumate dalle torri alte più di 40 metri, aspettate di sapere cosa succede dentro l’acciaieria più grande d’Europa.

E come vivono i suoi 13mila lavoratori. La produzione è al lumicino, dopo lo scandalo giudiziario che ha colpito i Riva, accusati di associazione a delinquere e disastro ambientale. Ma l’Ilva mantiene ancora il suo primato per inquinamento e morti sul lavoro. E chi protesta - denunciano a left gli operai - viene preso di mira e rischia il licenziamento. Era così ai tempi dei Riva, è ancora così con il commissario di governo Enrico Bondi, una vecchia conoscenza perché è lo stesso amministratore nominato dalla famiglia Riva. Bondi regge in via straordinaria l’azienda dallo scorso 4 giugno, e cioè da quando gliel’ha affidata il governo di Enrico Letta con un nuovo decreto Ilva (il provvedimento ha già passato il vaglio della Camera e adesso attende quello del Senato per la definitiva conversione in legge). La scorsa estate è stata rovente a Taranto: arresti, sequestri, scioperi. L’Italia ha scoperto quello che tutti qui sapevano: dietro lo stabilimento c’è l’ombra nera del disastro ambientale. Mentre la crisi irreversibile del settore siderurgico sta trasformando le 8 tonnellate di produzione annua di acciaio in “overcapacity”, merci che nessuno vuole acquistare. Anche quest’anno, in riva allo Jonio, si prepara un’estate difficile. Soprattutto per gli operai che, da queste parti, di acciaio devono avere i nervi. ORDINI E DISCIPLINA «A me le cose storte non piacciono», sbotta Vincenzo Mercurio, 34 anni, operaio del Mof, reparto del movimento ferroviario dell’Ilva. Ed è proprio quel senso di giustizia che sta creando tanti problemi a Vincenzo. I “capi” l’hanno preso di mira: «Ho già ricevuto tre provvedimenti disciplinari. Ora potrebbero anche licenziarmi. Sapevo che mi sarebbe successo qualcosa del genere, sono preparato. La tessera sindacale che ho in tasca è come un marchio a fuoco ». In questo reparto nel 2010 si era raggiunto un accordo per la riduzione del personale: sui grossi locomotori, veri e propri treni che trasportano i semilavorati, non ci sarebbero stati più due conducenti, ma uno solo. In cambio l’azienda si impegnava a migliorare le postazioni. «Ma ciò non è mai accaduto», prosegue Vincenzo. «E noi ci siamo ribellati, soprattutto dopo la morte di Claudio». Era il 30 ottobre del 2012, quando Claudio Marsella ha un incidente mortale all’interno dello stabilimento. Quella volta gli operai fecero 15 giorni di sciopero e, al rientro in fabbrica, presero una decisione: «Contestare tutto ciò che non si era fatto per la sicurezza». L’azienda ha risposto colpo su colpo. Ogni volta che un operaio segnalava un guasto a un macchinario o chiedeva supporto, assistenza tecnica, sicurezza, la risposta era sempre la stessa: richiami, giorni di sospensione non retribuiti, multe. «Mi hanno preso di mira », è convinto Vincenzo. «Ma noi non molliamo: non molto tempo fa abbiamo denunciato alcuni dirigenti che da giorni minacciavano degli operai». I turni, in reparti come il Mof, sono massacranti: 07-15, 15-23, 23-07. E sono organizzati male: «Il fisico non riesce mai ad abituarsi. Soffro anche di insonnia», spiega. I medici hanno riscontrato a Vincenzo pressione alta e problemi cardiaci: «Ho chiesto il cambio di turno, per fare una vita più regolare. L’azienda mi ha risposto: “Per il momento rimani a casa, senza stipendio. In attesa che ti collochiamo da qualche altra parte”. E il caporeparto mi ha accompagnato fino all’uscita. Da quel momento non sarei più potuto entrare nello stabilimento ». Mentre racconta, si beve un caffè e accende una sigaretta. Non farà bene alla pressione e nemmeno al cuore. Vincenzo sorride: «Fa più male lavorare all’Ilva». copertina left.it

DIVIDE ET IMPERA Vincenzo Mercurio non è l’unico operaio che ha ingaggiato un duro scontro con l’azienda. Come lui ce ne sono almeno una ventina. «Tutti nostri iscritti o simpatizzanti», spiega Franco Rizzo operaio dell’Ilva e segretario tarantino del sindacato di base Usb, mentre ci accoglie nella sede del sindacato, alla periferia di Taranto. «Questi provvedimenti sono tutti uguali: la parola del capo contro quella del lavoratore. E all’Ilva la parola del capo vale dieci volte di più. Anche adesso che c’è il commissario Bondi ». Eppure la gestione commissariale punta a riguadagnare il rapporto coi lavoratori: «Spruzzano qualche aumento di livello, pagano regolarmente gli stipendi e addirittura c’è stato qualche anticipo di Tfr. Il tutto tramite i capi che intervengono sui lavoratori e attraverso i delegati sindacali. Mentre danno il dolce a una parte, affilano le spade per tagliare le teste di chi in questi mesi ha dato fastidio», accusa Rizzo. Divide et impera. All’Ilva lo scontro ha travolto anche le rappresentanze sindacali. «Film e Uilm sono sindacati padronali si sa, sono quel che dicono di essere», attacca Rizzo. «Ma la Fiom, qui a Taranto, ha dimostrato di non essere coerente», chiosa il responsabile dell’Usb. Il segretario tarantino della Fiom, Donato Stefanelli, ribatte risentito: «Usb punta solo a screditarci. Il loro nemico siamo noi, che dovremmo essere i più vicini a loro». E sui provvedimenti disciplinari ricevuti dagli operai non si sbilancia: «Vorrei capire quali sono le ragioni. Non attribuisco in via preliminare un’intenzione particolare all’azienda se non posso dimostrarlo. Di questi casi non ne conosco, né nessuno di questi lavoratori si è rivolto a noi». Le relazioni tra i sindacati restano tese, una guerra fatta di comunicati e volantini. Senza esclusione di colpi, nemmeno per la Fiom che - secondo Usb - in pochi mesi ha perso 600 iscritti su 1.500. Stefanelli smentisce: «Siamo l’unica organizzazione che in Ilva in questi mesi non perde iscritti». Al centro della guerra tra operai anche le elezioni dei rappresentanti dei lavoratori. Secondo Usb l’accordo del 31 maggio siglato tra Confindustria e i sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil più Ugl) esclude i sindacati autonomi e di base, perché pone limiti ingiusti e ammette solo le organizzazioni «certificate». Intanto la classe operaia tarantina - 12mila tute blu - resta a guardare. Molti sono appena trentenni, ma hanno «un’esperienza radicata di sottomissione», aggiunge Franco Rizzo. «Qui i lavoratori sono stati “educati” a entrare in fabbrica senza protestare. L’assunzione stessa è vista come un favore dell’azienda, grazie alla mediazione dei sindacati. È difficile riuscire a stare uniti, qualcuno dice che la forza dei padroni è questa: loro stanno tutti sulla stessa posizione, noi no». Abbiamo chiesto all’Ilva i dati sul numero di multe e provvedimenti disciplinari commutati agli operai. L’azienda non ci ha risposto. FUMI NERI, MORTI BIANCHE Al centro del rione Tamburi di Taranto c’è piazza Caduti sul lavoro, l’ex piazza Masaccio rinominata nel 2009 in ricordo degli operai morti dentro l’acciaieria. All’Ilva non si muore solo di inquinamento e malattie. Non è morto così Claudio Marsella, 29 anni, rimasto schiacciato da un vagone il 30 ottobre 2012. Né Francesco Zaccaria, 29 anni, intrappolato nella cabina guida di una gru caduta in mare al passaggio di una tromba d’aria, il 30 novembre 2012. E ancora, Ciro Moccia, 42 anni, operaio della manutenzione, caduto da un’impalcatura - un volo di 9-10 metri - il 28 febbraio 2013. Tre infortuni mortali, in quattro mesi. Da anni a tenere il registro delle morti bianche, per infortuni o malattia, è Cosimo Semeraro, ex operaio, elettricista dell’Ilva dal 1971 al 2000 che ha fondato il Comitato 12 giugno per ricordare i colleghi caduti in fabbrica. Secondo il suo elenco in 50 anni l’Ilva ha prodotto 195 morti per incidenti. E questo numero non è completo, c’è un vuoto dal 1985 al 1995. Anche su questo abbiamo chiesto conferma all’azienda tarantina, che ha preferito non risponderci. Semeraro è uno dei tanti operai che si è ammalato stando a contatto con i veleni della fabbrica. «Facendo manutenzione - spiega - lavoravo vicino ai tubi rivestiti di amianto e ai quadri elettrici dove ci sono le protezioni di amianto». Un veleno che non lascia scampo: Cosimo ha contratto l’asbestosi, una malattia polmonare. Ma non si è arreso, ha chiesto giustizia. La sua battaglia è cominciata nel 1995 e oggi un tribunale gli ha dato ragione. Ma il risarcimento che ha ricevuto per il «danno esistenziale, umano e materiale» è offensivo. Appena 10mila euro. «Non sono bastati nemmeno per coprire le spese legali affrontate», dice. Quasi vent’anni di lotte in cui «tutti mi ignoravano », ricorda Cosimo. «Anche i miei colleghi mi dicevano che non avrei mai vinto contro un colosso come l’Ilva. Invece ce l’ho fatta».

I CONTI CHE NON TORNANO La matematica non è un’opinione. Eppure i conti sulle emissioni inquinanti prodotte dall’Ilva proprio non tornano. Tra i dati relativi all’anno 2010 dichiarati dall’azienda e quelli indicati dall’Arpa pugliese c’è una differenza abissale. I quattro esperti nominati dal commissario Bondi hanno stilato una tabella con numeri ben più bassi di quelli resi noti qualche giorno fa dall’Arpa. Un esempio? Le emissioni di piombo secondo l’Ilva sono state 9.020 chili all’anno, mentre per l’Arpa 39.474 chili. Da tempo la Commissione europea indaga sull’Ilva. «Ma navigavano a vista», dice Fulvia Gravame dell’associazione Peacelink. «Perciò abbiamo deciso di aiutare l’Ue a comprendere cosa accade. Perché la situazione sanitaria è pesantissima ». Gli ambientalisti si sono “sostituiti” allo Stato e all’Ilva, portando dentro i palazzi di Bruxelles i documenti e le immagini delle emissioni e degli scarichi in mare dell’Ilva. Il direttore generale del dipartimento Ambiente della Commissione Karl Falkenberg ha commentato con un secco: «Inaccettabile ». La storia messa insieme da Peacelink è fatta di accordi disattesi, prescrizioni violate, omissione di controllo. Una situazione incredibile che va avanti da anni. «Stiamo parlando di grosse infrazioni», spiega Gravame. «Da una parte c’è un problema di controllo da parte della Pubblica amministrazione su quello che fa il privato e dall’altra il privato che non trova conveniente adempiere alle prescrizioni ricevute e invece di fare ricorso contro l’Autorizzazione ambientale (Aia) fa finta di niente e va avanti. Perché sa che nessuno controlla». È una catena perversa quella tarantina. L’ultimo provvedimento del governo Letta interviene con un commissariamento in cui si prevede di investire denaro pubblico preso in prestito dalla Banca europea degli investimenti. Si parla di 1,8 miliardi che serviranno al commissario per adempiere almeno a parte delle prescrizioni dell’Aia. Ma «l’unica via d’uscita - avverte Gravame - è far valere il principio che “chi inquina paga”. Addebitando alla famiglia Riva tutti gli oneri. Se nell’immediato non si riescono a reperire i soldi dei Riva va anche bene che intervenga lo Stato, però il governo Monti avrebbe dovuto vincolare le ricchezze dei Riva». Dovrà passare ancora qualche mese prima di conoscere il verdetto dell’Europa, e «non c’è da augurarsi che si arrivi all’infrazione», conclude Gravame. «In quel caso i costi verrebbero scaricati sui cittadini. E ormai abbiamo imparato che lo scambio denaro contro salute non ha alcun senso». (Fonte: left.it | Autore: Tiziana Barilla')
www.controlacrisi.org

giovedì 8 agosto 2013


 
News

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