Benetton nunca mas. È guerra al latifondo.
BUENOS AIRES ‐ «Contadini mandati alla guerra in frontiera, per dar la terra nuova ai gringos forestieri; e noi che siam qui da
prima della bandiera, di nutrirci di rape dovremmo anche esser fieri». Lo diceva più di cent'anni fa il gaucho Martin Fierro, se si
ammette la parafrasi piuttosto libera del poema epico argentino che porta il suo nome, ma ora il governo di Cristina Kirchner
sembra deciso ad ascoltarne la rima: in parlamento c'è una legge che vieta agli stranieri la possibilità di acquistare grandi
appezzamenti di terreno. Una norma non retroattiva, che permetterà ai grandi gruppi italiani di restare, anche se per farlo
saranno probabilmente obbligati a riconoscere più diritti ai dipendenti e rispettare le comunità indigene, perchè l'Argentina
del nuovo millennio cammina sola nella crisi e ha uno scudo ideologico contro parole come neocolonialismo e imperialismo.
«Lo Stato deve porre un limite alla proprietà estera della terra», ha già detto due volte in pochi giorni Cristina, esortando i suoi
legislatori a darsi una mossa, perché se la borsa delle commodities di Chicago ha fatto alzare il tetto per fare entrare il grafico
della soia, allora bisogna procedere in fretta verso quella che lei stessa ha chiamato «la seconda indipendenza» e vender caro
il proprio tesoro verde: solo il 20% delle terre coltivabili potrà restare in mani non argentine e un unico proprietario non potrà
intestarsi più di mille ettari. «Stiamo discutendo alcune modifiche al disegno di legge ‐ hanno detto dal gruppo parlamentare
del governo ‐ ma in linea di massima ci siamo», lasciando intendere che di qui a qualche giorno arriverà l'ok dalle commissioni
e poi anche dal Congresso. Alcuni giuristi ritengono che la norma sia incostituzionale, poiché va contro il principio secondo cui
gli stranieri godono degli stessi diritti dei cittadini nativi, tuttavia, con un'opposizione debole e d'accordo con lo spirito della
proposta, le uniche attività volte a rovesciare il pronostico restano in mano alle lobby agricole, che ultimamente hanno perso
il potere di cui godevano in passato. La realtà delle campagne è molto complessa. Da un lato, i cereali e i legumi si vendono a
peso d'oro: mentre il mondo piange i crolli azionari e anche il petrolio sente la gravità della crisi, la soia, che storicamente si
muoveva in sintonia con il greggio, sembra ora essersi sganciata dal fratello maggiore e ha fatto un +11% in agosto, arrivando
a 523 dollari la tonnellata. In coda alla cassa dell'emporio argentino ci sono un miliardo e mezzo di cinesi, che si accaparrano il
50% di tutta l'offerta nazionale, portando l'agricoltura al 10,23% del pil. Poi c'è il braccio di ferro politico che da tre anni divide
la Casa Rosada dai grandi coltivatori. Nel 2008 i sindacati dei latifondisti iniziarono un duro sciopero per contro le tasse
sull'esportazione (imposte per obbligarli a vendere alimenti a una nazione in cui era tornata la fame, invece di cederli alla
lucrosa borsa merci internazionale) e solo ora si mostrano più condiscendenti davanti all'evidente benessere del proprio
settore, alla supremazia elettorale che Cristina Kirchner ha dimostrato alle recenti elezioni primarie (disputate a un mese e
mezzo dalle presidenziali) e anche davanti a qualche concessione, compresa questa stessa legge sulle terre.
D'altra parte,
invece, ci sono i frutti coltivati nelle regioni nord della limpida Patagonia o i vigneti ai piedi delle Ande, dove la produzione è
quasi completamente bracciantile e, secondo un recente studio accademico, fino ai primi anni '90 la terra era quasi tutta in
mano alla piccola proprietà contadina, mentre negli ultimi due decenni si è «intensificato il dominio del capitale
multinazionale». Nella frutta e nel vino si concentrano, tra olandesi, francesi ed americani, anche alcune firme italiane, come
per esempio Expofrut, che dal 2007 controlla la locale Moño Azul, proprietaria di 10mila ettari coltivati a mele e pere. Oppure
come Benetton, che con un milione di ettari ha adibito un'intero Abruzzo a pastorizia, allo scopo di produrre la lana che usa
nei suoi vestiti colorati. Qui l'azienda si trova in causa con una piccola comunità indigena che rivendica il diritto ad abitare il
proprio territorio tradizionale. Lo studio legale Iturburu Moneff, che difende gli interessi del gruppo italiano, ci ha spiegato che
una recente sentenza obbliga le famiglie di etnia mapuche di Santa Rosa Leleque a sloggiare dai 550 ettari che occupano a
Benetton, altrimenti saranno sgomberate, ma queste hanno fatto ricorso e ora bisogna vedere come andrà. Riguardo a Moño
Azul, in marzo l'agenzia delle tasse ha scoperto 30 dipendenti ridotti in condizioni infraumane: ammassati in dormitori
piccolissimi, senza acqua, costretti a usare latrine invece che bagni e vessati da ferite infette che, in un caso, hanno anche
portato all'amputazione di un dito. Si tratta dei cosiddetti golondrinas (rondini), indios del nord argentino che vengono portati
sui campi a sud solo per la stagione dei raccolti, quando la richiesta di manodopera triplica all'improvviso. Guillermo «l'orbo»
Saavedra, il capo del piccolo sindacato di peones rurali Prl che conta tra i suoi affiliati anche molti dipendenti dell'azienda, ha
spiegato al manifesto che uno dei 300 mila raccoglitori di mele della Patagonia deve farsi trovare tra i filari alle quattro del
mattino, per restarci poi 16 ore, con una paga compresa tra i 200 e i 300 euro al mese, ovvero la cifra che l'Istat argentino
pone come soglia di povertà. In merito alle condizioni generali di lavoro, Guillermo ci presenta Mabel Arriagada, una ragazza di
27 anni che qualche anno fa camminava con un cesto di vimini da 30 chili sulle spalle, poi è inciampata e si è rotta entrambi i
menischi. Oppure il caso di Emilio Bañares, morto mentre cercava di bruciare un grande alveare con una lanterna: per evitare
le gelate invernali si incendiano tra le piante da frutto dei fusti pieni di un composto artigianale di combustibile. Se le
proporzioni sono errate, la miscela esplode solo avvicinando una fiamma. La lanterna di Bañares è stata trovata divelta, lui
ustionato sul 90% del corpo.
Di storie così ce n'è da farci un'antologia: le maschere contro il diserbante usate per mesi dopo la
scadenza, scale di legno vecchie di quarant'anni che si spezzano con il contadino sopra, assenza di cure e in molti casi, ma
finora non in quelli di Moño Azul, bambini al lavoro. Nel corso della storia, La Pampa è stata chiamata «mia» in molte lingue
diverse, sia da chi la lavorava sia da chi semplicemente ci si sedeva sopra. Secondo l'esecutivo, la legge sulle terre non va
contro gli stranieri, ma contro le grandi corporazioni che lasciano troppo poco dei loro utili nel paese. Comunque, le realtà che
già esistono potranno restare, ma dovranno probabilmente cambiare politica coi dipendenti, perchè negli ultimi mesi le
autorità hanno iniziato a rispondere alle denunce, intervenendo a tappeto, comminando multe e chiudendo battenti dove si
commettevano illeciti. Anche gli indios poi sono protetti contro sgomberi e interventi di trasformazione del loro territorio
dalla legge 26160 del 2006, anche se si tratta di una delle norme meno applicate dai tribunali. Il gaucho Martin Fierro parlava
spesso anche di loro, ma in questo caso il tempo trascorso non è ancora stato sufficiente a dargli ascolto. (di Filippo Fiorini)
Il Manifesto
martedì 13 settembre 2011
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