Pane e democrazia. Tunisia, Algeria, Egitto ed il prezzo dell’orzo.
Certo, tutti starete pensando, ma che ci importa se il prezzo dell’orzo schizza alle stelle, magari solo chi cucina macrobiotico avrà un problema. Ci sono cose sicuramente più drammatiche come il prezzo del pane, della farina, della carne! E le rivolte che si susseguono.
Molti, come sempre, tirando fuori solo informazioni selezionate secondo la logica neoliberista, si sono affrettati a dare le spiegazioni abituali: i cereali costano cari perché i russi chiudono le esportazioni, perché qui e la' ci sono disastri ambientali. Cioè: aumenta la domanda, diminuisce l'offerta, i prezzi salgono al “loro giusto valore”. Senza rendersi conto, come andiamo ripetendo da almeno due decenni(1) , che non solo il mercato non è “perfetto” ma che mai come ora, nel preteso trionfo della liberalizzazione dell’economia, il mercato - globale e interno – dei prodotti agroalimentari è stato così dominato da un ristretto numero di potentati economici e politici. E quelli più poderosi tra questi non hanno niente a che vedere con l’agricoltura, con la pioggia o la siccità, visto che producono denaro speculando sui contratti di compravendita dei prodotti, qualunque prodotto. Quelli che sono conosciuti come “i pirati in cravatta e camicia bianca”. Sì, quelli che si arricchiscono non producendo ricchezza ma scommettendo sui beni prodotti da altri. Come un qualsiasi gioco d’azzardo: più il risultato è “volatile” e più il guadagno è alto. Insieme al rischio. Ma qualcuno ci deve spiegare perché questo stia avvenendo, visto che quello che viene messa a repentaglio è la vita di centinaia di milioni di donne uomini e bambini, in tutto il pianeta. Non solo quelli che muoiono di fame o che sono minacciati dall’insicurezza alimentare. Ma anche quelli che per sopravvivere mangiano più patate e meno carne o latte(2) . Erodendo i risparmi propri e delle generazioni che li hanno preceduti. Al sud come al nord del pianeta.
Tra il 22 ottobre ed il 31 dicembre del 2010 il prezzo europeo dell’orzo è passato da 260 a 290 dollari per tonnellata, in un anno era passato da 151$/Ton a 282 $/Ton, praticamente si era raddoppiato, così come quello del grano che nello stesso periodo in UE era passato da 186$/Ton a 339$/Ton (medio) e negli USA da 219 a 333. (dati IGC, genn. 2011)
Ma i prezzi dei prodotti agricoli sono molto volatili, quasi a far pensare che ci sia una sorta di maledizione. Guardando bene si scopre che i prezzi mondiali dei cereali erano riscesi dal famoso picco del giugno 2008 fino al febbraio 2010, con una diminuzione del prezzo del grano di oltre la metà e di quello del mais di più di un quarto.
Questo significa che in pochissimi mesi questi prezzi sono stati fatti variare di molto. In questo pugno di mesi non si sono prodotte catastrofi climatiche di dimensioni tali da far crollare l’offerta di questi cereali così importanti per l’alimentazione umana. E neanche l’offerta dell’orzo è crollata visto che questo prodotto serve in gran parte per l'alimentazione animale e non risulta una esplosione del consumo mondiale della birra.
Infatti, guardando i dati delle produzioni, disponibilità, consumo e mercato internazionale di queste produzioni vediamo che in termini quantitativi non si sono prodotti disastri.
Per l’insieme dei cereali per l’annata 2010/2011 è previsto un leggero calo della produzione (dopo un’annata record) del 2,1% ma il commercio mondiale dovrebbe diminuire del 2,3%, quindi nessuna pressione eccessiva sui mercati internazionale. E comunque più del 51% dei cereali viene destinato ad un uso non alimentare. (dati FAO)
Ma i prezzi all'interno dei paesi di pane, zucchero, carne, latte crescono. E con la crisi economica ancora imperante l’insicurezza alimentare continua a crescere. Ma, per fortuna, anche l’opposizione a questo stato insostenibile delle cose, come le rivolte recenti nei paesi del Mediterraneo testimoniano. Solo che nei media occidentali, anche per toglierci ogni responsabilità, le vogliamo leggere come rivolte “per la democrazia”. In effetti sono rivolte, certo, per il “pane e le rose” ma spinte sopratttutto dalla “mancanza del pane”. E’ il caso della Tunisia, dell’Algeria (a quando il Marocco?), dell’Egitto, ma anche del Messico e della Giordania.
I paesi della sponda sud del mediterraneo, come tanti altri paesi del pianeta hanno subito negli ultimi 20 anni e subiscono ancora le imposizioni di accordi di liberalizzazione dei mercati (Pays partenaires méditerranéens - PPM), In particolare con la UE.
Fiera di sè e con assoluta certezza scriveva la UE nei suoi documenti ufficiali presentati ai paesi per il negoziato degli accordi detti di Barcellona: ”l’aumento delle esportazione ed il miglioramento dell’efficacia del settore agricolo locale, che dovrà fronteggiare la riduzione delle protezioni tariffarie aiuterà i paesi della sponda sud del mediterraneo a svilupparsi. ... Un circolo virtuoso sarà generato dall’aumento dei redditi agricoli provocando un miglioramento dell’intera economia e l’aumento dell’occupazione”. (UE)
E ancora: “…l’apertura dei mercati (dei prodotti alimentari, tra l’altro. Ndr) dovrebbe permettere una riduzione dei prezzi delle derrate alimentari «naturale» e favorire le famiglie più povere che sono quelle che hanno la spesa per i consumi alimentari più importante. Avrà, al contrario, effetti sull’occupazione agricola di senso opposto:la popolazione che sarà colpita rappresenta fino al 40% della popolazione, il lavoro agricolo è composto essenzialmente da una manodopera familiare e le aziende con una superficie inferiore a 5 ettari sono oltre il 90% del numero totale delle aziende agricole (nei paesi della zona). Per questo tipo d’aziende agricole le condizioni di vita sono particolarmente difficili e questo appare anche dalle statistiche sulla povertà (di questi paesi, Ndr)». (Fonte UE)
All'inizio del 2000 la ridotta dimensione fisica ed economica caratterizza i sistemi agrari dei paesi mediterranei, dai due lati della sponda. Lo sanno tutti. Infatti ancora la UE scrive nei documenti relativi al trattato di libero scambio con la sponda sud, “…le piccole aziende tradizionali appartenenti al settore protetto (le più numerose nel Mediterraneo: tre aziende su quattro hanno una superficie inferiore all’ettaro in Marocco ma, in totale dispongono solo del 24% delle terre agricole) hanno il più basso livello di produttività e saranno le prime a soffrire di qualunque forma di liberalizzazione dei mercati”.
Una parte fondamentale di queste aziende, però, produce cereali per il mercato interno, produce pane – non le rose – e saranno, sono, proprio loro ad essere, tra le piccole aziende contadine, ad essere colpiti. Scrive, senza vergogna, l’UE sempre sui suoi documenti ufficiali “..i produttori di cereali…saranno in prima linea e forniranno l’essenziale della manodopera agricola (diventeranno braccianti disoccupati, Ndr) che dovrà essere riconvertita e riallocata in altre attività, nel mondo rurale o nel mondo urbano”. (Fonte UE)
Ci sembra sempre sapere tutto dei paesi a noi vicini, ma della loro agricoltura sappiamo poco. In pillole possiamo ricordare che Algeria agricola è caratterizzata da:
1.Una superficie di terre coltivate (SAU) di 8 milioni di ettari, ripartiti tra terre arabili (93% SAU) e culture perenni (7% SAU).
2. Sul 75 % della SAU, la pluviometria resta il fattore limitante per le coltivazioni
3.1901: SAU era così ripartita 1,1 ha/abitante;
4.1955: SAU si era ridotta a 0,6 ha/ abitante;
5.1995: SAU era scesa a 0,32ha/ abitante;
6.2000: la SAU era ancora scesa a 0,28 ha /abitante.
7.Con 10 milioni di capi gli ovini sono la struttura portante dell’allevamento (80%). I caprini rappresentano solo il 13%.
8.I bovini, pur contando con 1.6 - 1.7 milioni di capi (6% dell’allevamento) sono una parte limitata delle attività (la metà sono vacche da latte) che si concentra nella zona nord del paese.
9. la steppa degli altopiani resta la migliore utilizzazione per il pascolo degli ovini che vi si concentrano per oltre il 90% .
“..Una liberalizzazione dell’agricoltura come quella proposta (dall’UE) …avrà come risultato, nel caso algerino, di innalzare un deficit agricolo che è già molto grave…” spiega il consigliere del forum degli imprenditori algerini Mouloud Hedir.
L’agricoltura tunisina
1.Sono 380.000 le aziende agricole di cui 65 % allevano animali.
2.Le aziende agricole che hanno una superficie inferiore ai 5 ettari e sono 80% del totale
3.La FAO considera che il 47% delle terre subiscono un rilevante processo di erosione.
4.Il 65% dei bovini si collocano nel Nord del paese, il 60 % degli ovini e caprini sono nel centro, mentre l’80% dei camellidi sono ripartiti tra centro e sud.
5.La maggior parte dei bovini, di razze locali e incroci appartiene a piccoli allevatori con poca o niente terra. Molti, nelle zone irrigate o periurbane producono latte con una scarsità di terra, con meno di 0,3 ha per vacca (fonte FAO) .
6.L’agricoltura intensiva, una fetta molto limitata di produzione, è simile a quella europea con grandi stalle con oltre 100 vacche da latte.
L’agricoltura del Marocco
1.I cereali occupano 2/3 della terre agricole del paese senza irrigazione. Ma l’importanza della coltivazione dei cereali è andata decrescendo con il crescere del valore dell’esportazioni e quindi della produzione di frutta e verdura, soprattutto nelle zone irrigue. Autosufficiente in carne, manca di olio (per il 65%) mentre la produzione di frutta e verdura è quantitativamente sufficiente a soddisfare la richiesta nazionale ma viene in gran parte esportata.
L’agricoltura della Libia di fatto non esiste, infatti secondo la FAO, produce solo l’ 8,28 % del suo fabbisogno di cerali e poco altro.
L’agricoltura dell’Egitto si sviluppa lungo il Nilo, da cui dipende il 96% della produzione totale agricola, e contribuisce al 20% del PIL ed occupa più di un terzo della popolazione, ma l’Egitto non è autosufficiente in prodotti alimentari, nonostante questo possiede un corridoio verde per esportare a titolo preferenziale prodotti agroalimentari in Italia e nel resto dell’Europa. Inutile dire che si tratta in gran parte di una delocalizzazione camuffata della produzione agroindustriale europea gestita attraverso un ampio sistema di contratti di coltivazione o di acquisto di terre da parte di imprese europee.
Come avevamo già accennato, i consumi alimentari rappresentano la prima voce di spesa per l’insieme dei consumi delle famiglie nei paesi della sponda sud. Infatti, in Marocco ed Egitto in Tunisia, Giordania rappresentano oltre il 35%. I cereali sono il cuore della dieta (220kg/ a persona in media) e quindi sono un prodotto di assoluta prima necessità. Questi consumi, di fatto, dipendono in gran parte dal mercato internazionale. Infatti, dati medi, la produzione agricola soddisfa solo in parte la domanda alimentare (cereali, zucchero, etc). Per l’Algeria, la Libia, il Marocco, la Tunisia, le importazioni alimentari rappresentano tra il 20 e il 25% delle importazioni totali con una progressione stabile nel corso degli anni.
Denunciavamo già alcuni anni fa per i paesi mediterranei: “L’accesso alla OMC e la partecipazione al processo di Barcellona ha già generato importanti riduzione delle superfici coltivate a cereali, soprattutto nelle zone irrigate, più produttive”. Il processo di riduzione è accompagnato da un eguale processo di accaparramento e concentrazione delle terre in mani sempre meno numerose. Si sono andate rafforzando grandi aziende a forte capitalizzazione soprattutto produttrici di frutta, verdura e legumi per l’esportazione. Questo tipo di aziende agricole sta concentrando sempre più la disponibilità di terre coltivate: in Tunisia, 2% delle aziende di taglia superiore ai 20 ettari, controlla più del 60% della SAU; In Marocco, in 20 anni il numero di aziende è diminuito del 22% ma quello delle aziende più grandi è aumentato più dell’8% (cf. A. Ait El Mekki, G. Ghersi, R. Hamimaz, J-L. Rastoin, 2002).
L’agricoltura contadina, di autoconsumo ed approvvigionamento del commercio di prossimità “sarà toccata duramente” dalla rottura del tessuto sociale e delle attività economiche degli spazi rurali dove i contadini completano sia il reddito necessario alla famiglia che il ciclo produttivo (Fonte Banca Mondiale, 2002)
La mancanza di fonti alternative di reddito ha provocato un forte spostamento di popolazione dalle zone rurali verso quelle urbane e l’emigrazione. Le aziende agricole, dette «efficaci» non sono in grado di assorbire che quote assolutamente insignificanti di questa forza lavoro espulsa dal processo produttivo agricolo proprio della piccola azienda familiare, base del tessuto sociale rurale. Le aziende agricole capaci di esportare, e quindi necessariamente con una forte capitalizzazione, offrono impieghi agricoli ad alto tasso tecnologico rendendo i lavoratori del settore familiare incapaci ad occupare eventuali disponibilità di lavoro. Resta l’esodo come unica alternativa.
E’ questo l’unico effetto certo del processo di liberalizzazione, gli impatti positivi previsti non ci sono stati e, se ce ne fossero stati, questi sono stati recuperati dalle èlite locali dominanti attraverso la corruzione e l’accaparramento proprio dei regimi repressivi. E ancora una volta si è sbagliato chi non ha capito che l’agricoltura condiziona a fondo l’equilibro dell’intera società di questi paesi. L’UE se ne rende conto ma, intossicata dalla sua ubriacatura liberista, per gli scambi agricoli propone una liberalizzazione “aux pays partenaires méditerranéens -PPM, sulla base di una liberalizzazione reciproca(UE) » che le elite al potere apprezzano esportando prodotti alimentari verso l’UE per circa 5 miliardi di dolari. Poca cosa, ma che rappresentano circa la metà delle esportazioni agricole totali di questi paesi, paesi che, ricordiamolo ancora una volta, non dispongono dell’autosufficienza alimentare. Al contrario vede rapidamente deteriorarsi la loro capacità produttiva agricola negli ultimi 20 anni che si concentra in pochissimi prodotti da inviare sul mercato mondiale: cinque prodtti rappresentano oltre il 90% delle esportazioni alimentari (Fonte UE) .Nè si può pensare che in futuro questi paesi potranno aumentare le loro esportazioni verso l’UE dove ad esempio, l’80% del consumo di pomodoro è coperto dalla produzione di Spagna e Olanda, il 90% del consumo di patate viene da produzione interna all’UE, come il 55% delle olive in conserva.
Distruzione dell’agricoltura familiare e contadina. Riduzione delle capacità produttive agricole, riduzione della capacità di approvvigionamento del mercato interno da parte dell’agricoltura locale, grande e crescente dipendenza dal mercato agricolo internazionale per l’approvvigionamento in alimenti della popolazione, che spende la gran parte del suo reddito proprio per alimentarsi. Il mercato internazionale agroalimentare sempre di più dominato da chi controlla una grande massa di mezzi finanziari da poter usare a fini speculativi con “appropriati” strumenti (futures e derivati), la cui volatilità viene utilizzata dalle potenti èlite nazionali (forti del supporto dei regimi repressivi) per trasferire gli aumenti direttamente sulle spalle dei consumatori locali realizzando profitti propri della borsa nera.
E così perfino la speculazione sull’orzo è fondamentale e si ripercuote sul costo degli allevamenti e finisce per trasferirsi agli aumenti del prezzo della carne e del latte. E se il mercato dello zucchero in Algeria o in Egitto è di fatto controllato da monopolisti, anche lì si può imporre una serie di aumenti. Un po' quello che succede col prezzo della benzina alla pompa qui da noi. Le quotazioni del barile salgono ed immediatamente il prezzo della benzina sale, anche se tutti sanno che il prezzo del barile poco a che fare con quanto greggio viene prodotto ogni giorno.
Si, “la Tunisie est la solution”.
(1) Forum delle Ong parallelo al Vertice Mondiale sull'Alimentazione (17 novembre 1996) - “Profitto per pochi o Cibo per tutti.”
(2) Dati Istat sui consumi alimentari 2010.
(di A. Onorati, Crocevia - 29.1.2011)
www.croceviaterra.it
sabato 29 gennaio 2011
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